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Non indignari, non admirari, sed intelligeri

Spinoza


Il blog si legge come un testo compiuto sulla Cina. Insomma un libro. Il libro dunque tratterà del "pericolo giallo". Un "giallo" in cui l'assassino non è il maggiordomo ma il liberale. Peggio il maggiordomo liberale. Più precisamente il maggiordomo liberale che è in voi. Uccidetelo!!!Alla fine il vero assassino (a fin di bene) sarete voi. Questo sarà l'unico giallo in cui l'assassino è il lettore. A meno che non abbiate un alibi...ça va sans dire.

domenica 20 maggio 2012

4.5: Il socialismo di mercato nell'est Europa e l'autogestione jugoslava

4. Socialismo tra realtà e mito


Molti dimenticano che lo stesso socialismo di mercato non è una novità assoluta nei paesi socialisti. Anche questo fa parte di questa esperienza storica. E’ significativo che molti economisti abbiano pensato già dagli anni ’50 al socialismo di mercato come ad una alternativa a quello rigidamente pianificato. La discussione viene avviata principalmente in Jugoslavia e nella Polonia di Gomulka, segue l'Ungheria mentre Germania Est e Cecoslovacchia rimangono attardate. Ma si potrebbe persino pensare agli albori delle Democrazie Popolari. Analogamente a ciò che avveniva in Cina scrive l'economista di origine ungherese Evgenij Varga: “Il regime sociale di questi stati si differenzia da tutti gli stati da noi conosciuti finora : è qualcosa di assolutamente nuovo nella storia dell’umanità”….In essi “esiste il sistema della proprietà privata sui mezzi di produzione; ma le grandi imprese industriali, il trasporto e il credito sono nelle mani dello stato e lo stato stesso e il suo apparato di repressione non servono gli interessi della borghesia monopolistica, ma gli interessi dei lavoratori”…”Con la nazionalizzazione dei principali mezzi di produzione e col carattere stesso di questi Stati sono state gettate le basi per il loro passaggio al socialismo. Essi possono, mantenendo il potere statale attuale, passare gradualmente al socialismo sviluppando sempre più le organizzazioni di tipo socialista che già esistono accanto alle aziende mercantili…e …capitalistiche che hanno perso la loro posizione preminente”…”Così la struttura sociale negli Stati democratici di nuovo tipo non è la struttura socialista, ma una nuova forma originale di transizione. Le contraddizioni tra le forze produttive e i rapporti di produzione si attenuano man mano che aumenta il peso specifico del settore socialista”. proposte simili a quelle avanzate da mao per il governo di coalizione e Togliatti della Democrazia Progressiva. Dunque le idee c'erano. Ciò in cui si sbagliò fu nel pensare che in paesi come quelli dell'Est che avevano subito una riufeudalizzazione fossero suffucenti pochi anni per passare ad obbiettivi socialisti avanzati (Sorini 2003)

Nel 1956, dopo l'introduzione dell'economia pianificata in Polonia, il Consiglio economico, cioè un ente governativo, si dichiarò a favore del modello "decentrato". Mentre, in Ungheria, nel corso del 1950, le raccomandazioni della Commissione economica a favore delle riforme di mercato sono state respinte dal Comitato Centrale del Partito Comunista perché contrarie ai principi fondamentali del socialismo (Bjarnason 1997).

Janos Kadar 
Il Nuovo Meccanismo Economico introdotto in Ungheria nel 1968, ha rappresentato la rottura più significativa dal sistema classico della pianificazione centralizzata nei paesi del blocco sovietico e sull’allocazione amministrativa delle risorse, sostituendo il sistema di piani obbligatori con controlli indiretti su aziende di Stato in conformità a indicatori finanziari e incentivi. In questo caso però rimangono i difetti di efficienza delle imprese anche perché queste non sono messe in concorrenza nel libero mercato e perché lo stato si ostinò a tenersi quasi tutta l'economia non portando fuori il paese dal declino dell'efficienza economica. Ciò si traduce solo in maggiori poteri ai manager che utilizzano la loro autonomia d'azione per gestire le imprese più per il loro tornaconto che per lo stato. Essi si dirigono al mercato internazionale che ha reso possibile l'accaparramento da parte dei dirigenti di monete forti e l'accesso a beni di lusso preparando inoltre il terreno alla privatizzazione che è dunque dovuta al mancato successo delle riforme e non tanto all'introduzione del “mercato”.

In Polonia viene introdotta nel 1971 la "nuova strategia per lo sviluppo", che si basa su forti prestiti esteri e l'importazione della tecnologia occidentale. Il tasso di crescita degli investimenti in capitale fisso salgono ad una media del 21,3 per cento l'anno durante il 1972-75, rispetto a un tasso medio annuo di circa il 7,6 per cento durante gli ultimi 15 anni. La quota delle importazioni di macchinari e attrezzature provenienti dai paesi non-socialisti e le importazioni totali in macchinari e attrezzature passa da una media del 21,2 per cento nel 1961-71 a una media del 43,3 per cento nel 1972-76, raggiungendo un picco del 52 per cento nel 1975 (Bjarnason 1997). 

Per finanziare queste importazioni, la Polonia riceve dalle banche occidentali 38,6 miliardi dollari di credito a medio e lungo termine tra il 1971-80. Tuttavia, il trasferimento di tecnologia occidentale non ha raggiunto gli obiettivi prefissati di aumentare le esportazioni industriali in Occidente. Ma l'onere del debito diventa così grave che la strategia viene stata abbandonata nel1976 e sostituita dalla "Nuova Manovra economica" che impone una drastica riduzione del tasso di investimenti e nella crescita delle importazioni in valuta forte. Il tasso di crescita degli investimenti nel 1976-78 crolla al 2 per cento. Solo verso la fine degli anni '80 il deficit commerciale con i paesi occidentali è stato ridotto notevolmente, da 3,0 miliardi di dollari nel 1975 a 70 milioni di dollari nel 1989. 

Nel 1980, il debito estero della Polonia arriva alla cifra record di ventiquattro miliardi e che determina il fallimento della strategia di sviluppo basata su crediti occidentali. Mentre paradossalmente le economie centralizzate sono riuscite a ridurre gli oneri del loro debito internazionale: la Cecoslovacchia e la Romania seguono, infatti, una politica di crescita lenta e ripagano i debiti negli anni '80, con tassi di crescita del PIL in media del 2,7 per cento e il 4 per cento, rispettivamente, tra il 1977-86. 

Con il debito internazionale fuori controllo la Polonia, nei tardi anni '80, soffre di un’inflazione enorme. Durante il periodo 1977 al 1986, la Polonia raggiunge solo l'1,4 per cento nel tasso di crescita medio del PIL, il livello più basso tra tutti i paesi del Comecon. In Ungheria, l'accumulo del debito estero porta a negoziati con il Fondo monetario internazionale (FMI) per l'attuazione di un programma di stabilizzazione nel 1982-83. Questo programma, tuttavia, aggrava ulteriormente l'onere del debito, che aumenta di nuovo all'inizio di 1985. L'Ungheria supera la Polonia raggiungendo il secondo più basso tasso di crescita medio del PIL - 2,5 per cento – nel Comecon tra il 1977-86 con il massimo livello di indebitamento pro capite. 

Il mancato sviluppo di un mercato socialista è stato responsabile anche per i fallimenti del commercio tra i paesi socialisti. A dispetto dei più elementari principi di economia tutto il commercio viene condotto in modo bilaterale. Ciò ha portato al fatto che le banche scambiava le proprie valute con quelle di qualsiasi paese capitalista e viceversa, ma non accettano lo scambio delle valute con altri paesi socialisti, tranne nei negoziati commerciali governativi. Se la Polonia, per esempio, voleva vendere i prodotti agricoli in Cecoslovacchia, avrebbe ottenuto in cambio valuta ceca, che poteva venire utilizzata solo per acquistare beni cecoslovacchi. Dal momento che di rado accadeva che la Polonia avesse bisogno di merci cecoslovacche l'eccesso di moneta ceca non poteva essere speso altrove: tutti i paesi socialisti si sono trovati in possesso di grandi somme inutilizzabili delle rispettive valute. 

E' stato un ritorno al passato, quando l'unica forma di scambio era il baratto tra tribù vicine. Un tentativo è stato fatto nel 1970 per porre rimedio a tale situazione con l'introduzione del rublo trasferibile per lo scambio di moneta comune per tutti i paesi socialisti, ma solo per quanto riguarda i beni di investimento. Non è mai avanzato al di là di quel punto e tutte le economie socialiste ne hanno subito le conseguenze (Lebowitz 2004). 

La Jugoslavia è indubbiamente un importante case study poiché vi vengono implementate tutte le varianti possibili del socialismo, dalla pianificazione di stampo sovietico al socialismo di mercato all’autogestione radicale[1]. La Jugoslavia è stata anche un caso di paese socialista di successo per cui è estremamente importante studiarla. Tra il 1953 e il 1960 la Jugoslavia ha registrato il più alto tasso di crescita del mondo. La produzione industriale cresce del 13,4% l’anno e il PIL dell’8,9%. Dal 1960 al 1980 la Jugoslavia, tra i paesi a reddito basso e medio si trova al terzo per reddito procapite. La produzione industriale cresce in quegli anni dell’8,8% e il PIL del 7% l'anno. Negli anni ’70 del 7,5% e del 6% rispettivamente. Nel 1980, la produzione industriale è aumentata dell'80% rispetto al 1970. 

Ancora nel 1950 la Jugoslavia è un paese sottosviluppato con più del 50% della popolazione dedita all’agricoltura. Le condizioni di vita migliorano, pur variando da repubblica a repubblica, stimolano a loro volta i consumi e il mercato immobiliare. Nel 1976 la Slovenia può godere di un livello di vita paragonabile a quello austriaco e la Jugoslavia nel suo complesso pari a due terzi di quello italiano. (Schweickart 2006)

Gomulka
La crescita economica della seconda metà degli anni ’50 porta anche a forti aumenti salariali (13% nel 1957 sull’anno precedente) per un valore del 4-5% annui al netto dell’inflazione, tra il 1957 e il 1961. Gli stipendi sono ancora indubbiamente bassi, molto diffuso è il secondo lavoro (specie in agricoltura) e indispensabili risultano gli assegni famigliari. L’indice Engel che misura la percentuale di spese per l’alimentazione sulle spese totali ci dice che queste ormai costituiscono solo il 55% delle spese delle famiglie operaie. Migliora anche la qualità delle merci a cominciare da quelle alimentari e anche merci di utilizzo quotidiano come elettrodomestici ecc. Tra gli indubbi successi la prevenzione antinfortunistica e la sicurezza sul lavoro. 

In Jugoslavia, come del resto nelle altre Democrazie popolari vi erano delle difficoltà obbiettive a trasportare meccanicamente il modello sovietico. E’ un problema che lo stesso Stalin intravvede secondo quanto ci dice Dimitrov nel suo diario. In un primo tempo si segue il modello sovietico fondato sulla pianificazione di indici fisici in cui le categorie monetarie giocano un ruolo essenzialmente contabile e non attivo. Perdite e benefici sono pianificati e i prezzi non influiscono sulle scelte dell’azienda. 

Con la rottura tra Mosca e Belgrado, gli jugoslavi tendono a distinguersi da quella che era la casa madre sovietica elaborando un nuovo modello di socialismo. Secondo la dirigenza jugoslava la proprietà statale intesa come proprietà della classe è una forma indiretta di potere della classe operaia perché, di fatto, la classe non esercita direttamente il proprio controllo sulle aziende, sull’economia e sulla politica. Questa forma centralizzata riprodurrebbe addirittura l’alienazione della classe operaia ovvero la separazione della classe operaia stessa dai mezzi di produzione e dai prodotti del proprio lavoro. La forma classica dell’autogestione è la forma cooperativistica che essendo proprietà non degli operai in quanto classe ma dei lavoratori occupati nella singola azienda è una forma di proprietà sociale “incompiuta” da parte della classe operaia e dunque, secondo il punto di vista deterministico e meccanicamente evolutivo del marxismo di quel periodo, deve essere superata. La critica a questo modo di vedere non è del tutto ingiustificata. Per gli jugoslavi la classe operaia in sé deve trasformarsi in classe operaia per sé e dunque il potere non deve essere gestito in nome del proletariato. In questa direzione lo stesso Partito Comunista Jugoslavo cambia nome e diventa Lega dei Comunisti per sottolineare che non si trattava più di un’avanguardia distaccata dalla classe ma uno strumento di esercizio del potere da parte della classe stessa. Gli jugoslavi riprendono la polemica di stampo bordighista sul cosiddetto capitalismo di stato e sul potere dispotico della burocrazia. 

Per i teorici jugoslavi sembra che il problema sia chi amministra il surplus del lavoro e chi se ne impossessa. Se lo fanno direttamente i lavoratori oppure qualcun altro come il capitalista privato per suo conto e a proprio nome oppure se il capitalista di stato per suo conto ma a nome del proletariato. In effetti, la cosa non è posta male poiché Marx non è contro il surplus in sé ma contro la sua appropriazione privata. Per Kardelj, il massimo teorico dell’autogestione, il mercato è solo un mezzo tecnico (anche Stalin sarebbe stato d’accordo) e non il padrone dell’economia. Egli riconsidera anche categorie come la rendita, il profitto e la contabilità economica che sono comunque presenti nell’economia socialista ma che i marxisti ortodossi di scuola sovietica non chiamano con il loro vero nome. Secondo i dirigenti jugoslavi le economie rigidamente pianificate finiscono con l’essere irrazionali dittature dell’offerta che limitano la libertà di scelta dei lavoratori-consumatori. La pianificazione è comunque una creazione soggettiva e tutt’altro che infallibile. Inoltre l’autogestione sarebbe più sensibile alla domanda effettiva del mercato in quanto più flessibile ed efficiente della pianificazione centralizzata. 

L’autogestione come sistema inizia nel 1950, anche se dapprima erano funzionanti i Consigli dei lavoratori. Tra il 1953-64, è in vigore una variante autogestionaria della pianificazione decentralizzata (come fu realizzata anche in Ungheria e nell’ultimo periodo in URSS) che produce l’articolazione del piano, del mercato e dell’autogestione in seno alla pianificazione. L’introduzione dell’autogestione non significa lo smantellamento totale della pianificazione ma questa viene ristretta ad alcuni strumenti economici: prezzi, crediti, salari e fisco che trasmettono le preferenze dei panificatori e rimpiazzano gli ordini amministrativi. I margini di responsabilità dell’impresa sono ampliati ma la gestione operativa è subordinata alle grandi opzioni strategiche pianificate. 
Tra il 1953 e il 1963 viene rafforzata l’autonomia della gestione delle imprese, l’ampliamento dell’autogoverno locale a cui passano buona parte delle competenze dello stato. I dirigenti delle imprese dovranno rendere conto al Consiglio dei lavoratori invece che ai ministri dello stato. Nella prima fase di transizione all’economia di mercato il governo controllava gli investimenti, questa politica viene abbandonata per il formarsi di un’opposizione generalizzata ad ogni intervento del governo. Ciò è in contrasto sia con l’esperienza giapponese che con quella successiva cinese di un grande interventismo dello stato nazionale. La richiesta di sempre maggiore autonomia viene dallo stesso Congresso dei Consigli dei lavoratori che nel 1957 chiedono: “[..] non abbiamo abbastanza potere per prendere decisioni. E' necessario rimuovere i regolamenti statali che restringono l’indipendenza delle imprese. In particolare, dobbiamo promuovere ulteriormente l'iniziativa di lasciare più soldi nelle imprese, permettendo loro di fare più investimenti. Vale a dire, abbassare le tasse. Lasciate che le imprese investono di più e lo stato di meno (Piccin 2004).

Si apre comunque una lotta tra “conservatori” e “riformisti”. I primi sono diffidenti verso la maggiore autonomia delle imprese e danno la priorità agli investimenti in agricoltura per diminuire la dipendenza dall’estero che influisce negativamente sulla bilancia commerciale. I riformisti prevalgono e dopo una falsa partenza all’inizio degli anni ’60, ottengono con la Costituzione del 1963 che l’autogestione diventi un diritto. Dopo una parentesi di riassestamento nel 1965 viene ripresa la strada delle riforme con la possibilità anche di costruire imprese private di piccole dimensioni. Dal 1965 la Jugoslavia passa a un vero e proprio socialismo di mercato, dove il mercato diventa il regolatore dell’economia. Il piano assume una funzione secondaria, di orientamento attraverso lo strumento del credito erogato per l’applicazione di obbiettivi pianificati che prendono il posto degli ordini diretti. La pianificazione viene decentralizzata, la gestione operativa dell’azienda si decentralizza e aumentano i margini di responsabilità dell’impresa. L’efficienza deve essere perseguita con l’introduzione di un arbitro neutrale come il mercato e viene varata in un contesto di espansione economica internazionale. Si procede al progressivo smantellamento degli strumenti di pianificazione (controllo sui prezzi, sistema bancario decentralizzato, assieme ai fondi di investimento) con l’apertura alla competitività internazionale. Le aziende autogestite hanno ampia autonomia e possono così prendere decisioni su prezzi, investimenti e assunzioni. Anche le singole repubbliche che costituiscono la Federazione diventano più autonome nel tentativo di portare il potere decisionale verso la base e coinvolgere maggiormente i cittadini nella vita sociale con l’effetto di avvicinarli alle istituzioni. Gli organi locali e le aziende ormai amministrano la maggioranza assoluta dei fondi consentendo maggiore flessibilità degli investimenti. La riforma è strutturale. Vengono liberalizzati i prezzi di beni e servizi stabiliti dalle leggi di mercato. Cambia il sistema di prelievo fiscale per le aziende, più libere di disporre delle risorse economiche prodotte. La pianificazione centralizzata degli investimenti, aveva portato a sprechi dati dalla non corretta allocazione degli investimenti, come la costruzione della tipica cattedrale nel deserto ovvero l’acciaieria di Nikšić in Montenegro fuori dalle vie di comunicazione senza ferrovia né strade asfaltate. Si cerca di passare dallo sviluppo estensivo a quello intensivo chiudendo le cosiddette fabbriche politiche tenute in piedi solo per dare del lavoro alla manodopera locale, puntando sulla qualità della produzione con la riduzione dei nuovi investimenti allocati in modo più efficiente. Dal 1963 al 1974 i fondi di investimento passano progressivamente dallo stato, che perde parecchio del suo ruolo negli investimenti, a favore del sistema bancario autogestito. La Federazione mantiene il potere di controllo e di emissione della carta moneta attraverso la Banca nazionale. L’autofinanziamento e il credito bancario diventano la regola per gli investimenti e le imprese che così possono procacciarsi autonomamente i finanziamenti di cui necessitano. Si auspica che la maggiore competitività porterà a una migliore integrazione con i mercati mondiali con la possibilità di acquisire dall’estero tecnologia e semilavorati. 

Si va verso la creazione di un mercato del lavoro con l’accettazione della disoccupazione come male necessario. Alcune obbiezioni dei conservatori potevano essere anche giuste dato che con un’autogestione spinta si lascia troppa autonomia ai lavoratori che potrebbero scegliere di aumentare i salari a scapito degli interessi collettivi. I riformisti replicano legando i salari alla produttività fiduciosi che i lavoratori vengano stimolati a una sorta di patriottismo aziendale dipendente appunto dalle sorti e dal successo dell’azienda. La differenziazione dei salari è legata alla produttività e quindi possono variare sensibilmente anche da zona a zona, ma persino tra lavoratori con la stessa qualifica che lavorano in aziende diverse oppure nella stessa azienda. Il decentramento intacca la capacità di controllo macroeconomico, vengono sempre più a mancare gli strumenti per bilanciare le inevitabili diseguaglianze sorte dal mercato. 

Le imprese diventano via via sempre più autonome dallo stato tanto che David Granick sostiene che negli anni ’70 esse abbiano un’autonomia paragonabile a quella di una Corporation americana (Mangano 2009). Questo è il lato debole dell’autogestione che da una parte non supera l’anarchia capitalistica della produzione e dall’altra tende a feudalizzare l’economia. La riforma del 1965 viene gestita in modo piuttosto radicale provocando come conseguenza un forte aumento dei prezzi al consumo di circa il 30% nel giro di tre mesi e della disoccupazione determinando un forte malcontento. All’inizio degli anni ’70 è opinione diffusa che le riforme volute dall’ala riformista siano un disastro: scioperi, inflazione, deficit della bilancia commerciale, rallentamento della crescita industriale e diminuzione dell’efficacia degli investimenti. 

Nella Costituzione del 1974 le singole Repubbliche arrivano a un’effettiva sovranità su reddito, sviluppo del territorio, leggi, piani sociali e politiche economiche. L’obiettivo della Costituzione del 1974 tende a favorire i rapporti tra le singole repubbliche, con l'integrazione delle aziende su scala interregionale, attraverso la costruzione di imprese in altre repubbliche saldando gli interessi delle varie regioni. Tutto ciò fallì clamorosamente. L’autonomia è quasi totale e le singole repubbliche costruiscono stati nello stato. Sono praticamente indipendenti per quanto riguarda gli investimenti e delle attività industriali, le politiche dei prezzi e delle tariffe, i servizi bancari, la tassazione, i servizi pubblici (elettricità, ferrovie, ecc.) e anche nei rapporti col capitale straniero. Il governo da troppa autonomia ai governi regionali nella generazione e allocamento degli investimenti. Si assiste così ad una feudalizzazione che interviene nel settore bancario, tecnologico, infrastrutturale e nel commercio con l’estero. La regionalizzazione comporta da una parte una mancata integrazione e dall’altra processi di vera e propria disintegrazione con tanto di protezionismo regionale. 

L’autonomia porta con sé una sorta di corporativismo autarchico regionale e alla frammentazione del mercato interno jugoslavo in una serie di sub-mercati regionali. I due terzi della produzione sono diretti ai mercati delle singole repubbliche. Nel 1970, in effetti, il 60% dello scambio in merci e servizi avviene all’interno delle singole repubbliche mentre nel 1980 tale percentuale sale al 69% per crescere ulteriormente negli anni Ottanta, in un delirio di nazionalismo economico. [Filippi 2006]. La cosa favorisce i trust locali che hanno posizioni monopolistiche a scapito del mercato nazionale. C’è la tendenza delle industrie jugoslave a strutturarsi in monopoli attraverso la formazione di “grandi sistemi” su base regionale. Meno del 20% delle aziende controlla il 70% della produzione e vi è alta concentrazione anche nell’artigianato. Vengono approvate leggi antimonopolio e accordi su quote di mercato, prezzi e concorrenza sleale che vietano anche sovvenzioni e i tentativi protezionisti che però sono demandati a istituti che sono interessati da un conflitto di interessi (Camere di commercio). Questi aggregati monopolistici nascono dalla necessità di dare una risposta concreta alla concorrenza delle aziende straniere ma hanno il limite di avere un carattere eminentemente regionale. Quando una di queste aziende entra in crisi (il caso di maggiore rilevanza è quello dell’INA, l’azienda petrolifera croata) si forma un effetto domino dato il loro speso specifico che porta alla crisi tutta l’economia regionale. La crisi e la mancanza di liquidità genera a sua volta un effetto a catena: un’azienda che non paga crea difficoltà ai propri fornitori e così via. Spesso ciò porta a diminuzioni degli stipendi e a conseguenti scioperi ed episodi di luddismo. 

Nelle regioni ricche c’è una scarsa stima per la manodopera locale delle regioni più povere, sebbene più a buon mercato (a volte con salari che sono la metà delle regioni più avanzate) e quindi le regioni avanzate tendono ad evitare investimenti in quelle più arretrate nel tentativo di tenere artificialmente bassi i prezzi dei semilavorati provenienti da quelle regioni. Inoltre gli investimenti di un’azienda autogestita comporterebbero la formazione di un’unità autogestita indipendente. L’azienda madre perderebbe il controllo sul nuovo impianto e i profitti sarebbero stati bloccati all’interno della regione. In questo senso le regioni, che sono diventate per prime benestanti, non aiutano quelle più povere. 

Le spinte autonomistiche dipendono anche da diversi interessi in gioco. Caratteristica è la disputa sul prestito della Banca Mondiale. La Slovenia, che propende per un’integrazione con la Comunità Europea, lo vuole impegnare in un’autostrada che la colleghi all’Italia, la Croazia lo vuole impiegarla per lo sviluppo delle zone interne e la Serbia lo vuole impiegare nello sviluppo dei canali danubiani per il commercio con il Comecon. Il mercato del Comecon, non andando tanto per il sottile sulla qualità, disincentiva le innovazioni condizionando l’evoluzione economica, mentre un più stretto collegamento con la CE avrebbe avuto un effetto di stimolo. 

Ciò porta all’aumento il divario tra zone più sviluppate e zone arretrate che è il presupposto per lo scoppio delle tensioni etniche. Solo un sistema di aziende nazionali piazzato nei nodi strategici e un mercato davvero nazionale può mantenere unito un paese come la Jugoslavia. Si eviterebbero doppioni di aziende e la dipendenza del territorio da pochissime aziende chiave evitando i contraccolpi sociali della crisi. In un settore strategico come quello della produzione dell’energia vige la completa anarchia che si tramuta in autarchia. Manca un sistema razionale di pianificazione per cui le repubbliche autosufficienti non investono e quelle non autosufficienti importano dalle altre. Finché nel 1981 si arriva a una crisi che porta a consistenti limitazioni nell’erogazione di energia elettrica. Gli impianti funzionano con combustibili liquidi che devono essere importati in un periodo di grande aumento del prezzo del petrolio e non fanno altro che aumentare la dipendenza dall’estero. 

Il tasso di investimento è il più alto del mondo. Nel 1976 è pari al 33% del PIL contro quello del Giappone con il 30%, il Canada con il 23% e gli USA con il 16%. Nel 1980 se il 47% è destinato ai salari, i fondi aziendali di investimento raccolgono il 17% degli utili, tasso quasi raddoppiato rispetto a un decennio prima; nell'economia iugoslava, complessivamente, il 38% delle risorse è impegnato in investimenti produttivi. La crescita della produttività delle imprese fino alla metà degli anni ’70, a differenza dell’URSS negli stessi anni, è notevole. C'è un uso intensivo di capitale in ingenti investimenti, con l’introduzione di tecnologia moderna. Le aziende autogestite non licenziano, dato che scopo dei lavoratori autogestionari è quello di garantire l’occupazione e il reddito ma si danno agli investimenti intensivi di tecnologia, per ottenere maggiori redditi in seguito. Questo è in generale un elemento molto positivo però deve essere unito ad un mercato del lavoro flessibile in modo da potere ristrutturare le imprese deficitarie e nel contempo creare altri spazi per l’occupazione. 

Queste aziende invece tendono a produrre anche quando non si possa vendere subito e vendere anche quando il pagamento è dilazionato. La democratizzazione comporta che i poteri per licenziare sono delegati non alla direzione ma al Consiglio Operaio, questo tenderà a non licenziare anche in periodo di crisi. Il mantenimento di lavoratori in esubero comporta, soprattutto nelle aziende arretrate, che non si possa introdurre tecnologia moderna creando uno scompenso con quelle avanzate. Siccome c’è riluttanza a licenziare e nel contempo ad assumere si forma la tendenza a proteggere la parte di lavoratori già assunti arrivando, di fatto, a una discriminazione nei confronti di chi s’immette sul mercato del lavoro che è destinato alla disoccupazione cronica risultato inevitabile della rigidità del mercato del lavoro. Questo comporta che molti che migrano dalla campagna alla città in cerca di redditi maggiori si trovino senza lavoro. Si assiste all’aumento contemporaneo di occupati (da 8.834.000 nel 1970 a 9.276.000 nel 1980) e di disoccupati (da 320.000 a 735.000), dovuto alla crescita del settore industriale e al contemporaneo declino dell'occupazione “agro-forestale”. Cresce la disoccupazione dal 5% al 13,7% dal 1960 al 1980 senza i lavoratori che vanno all’estero potrebbe addirittura arrivare al 30%. Nel 1971 la disoccupazione è al 7% ma il 20% della forza lavoro è all’estero. L’80% dei disoccupati sono giovani in cerca di prima occupazione. Il mercato del lavoro è molto rigido, i lavoratori vengono assunti per concorsi che favoriscono i residenti, i più bisognosi e via dicendo. Inoltre i licenziamenti non sono facili nemmeno per comportamenti colposi con la possibilità da parte del Consiglio operaio di condonare la pena (Piccin 2004). 

Il mercato del lavoro può mantenersi un equilibrio solo se accanto alle aziende capital-intensive se ne creino altre labour-intensive. Invece la piccola e media azienda che da maggiore flessibilità al mercato del lavoro non viene incentivata. La Jugoslavia è caratterizzata dalla più bassa media di imprese piccole e medie tra i paesi in via di sviluppo preferendo concentrarsi su imprese capital intensive che producono il 94% dei beni di consumo. Le piccole imprese labour intensive hanno il vantaggio che assorbono molta forza lavoro in rapporto al capitale investito, promuovono l’occupazione femminile e mobilitano il risparmio privato. La stagflazione in Occidente porta al ritorno degli emigranti senza che possano efficacemente investire i risparmi e anche le competenze acquisite all’estero in contesti tecnologici più avanzati. Si immobilizzano le rimesse degli emigranti e i considerevoli risparmi della popolazione (la Jugoslavia ha con l’Italia uno delle più alte percentuali di risparmio privato con il 25% dei risparmi in banca) senza che questi possano essere utilizzati nella formazione di nuove imprese. Dopo la crisi croata l’iniziativa privata invece viene addirittura disincentivata e ciò porta il paese a perdere occasioni di sviluppo e di occupazione. 

Un altro importante fattore di occupazione possono essere le joint-venture con aziende straniere, dove si poteva giocare sul differenziale dei salari più bassi rispetto a quelli occidentali. La Jugoslavia si trova vicina a due importanti mercati quali quello italiano e quello austro-tedesco. Ma le cose non vanno troppo bene. Siamo in presenza di un ambiente normativo che rende scarsamente appetibili gli investimenti esteri. L’azienda straniera non può avere più del 49% del capitale societario. Non si può ricondurre l’azienda jugoslava ai criteri di produttività occidentali. Si fissa un tetto di profittabilità superato il quale alla società straniera va una parte di profitti sotto forma di pagamento per gli investimenti che portano con il tempo a estromettere la società straniera dall’azienda. Questa regola fu rimossa troppo tardi negli anni ’80, quando la Jugoslavia è schiacciata dal debito estero e impossibilitata a rilanciare gli investimenti. Nel 1976 le joint-venture sono un centinaio per un valore di circa 1,1 miliardi di dollari, ma il capitale estero è di appena 200 milioni dollari e partecipa solo per 20% del totale invece del 49% consentito per legge. Gli investimenti sono in media 2 milioni di dollari per impresa, ma per più di un terzo sono dovuti a due imprese straniere la Dow Chemical e la General Mortor (Piccin 2004). Tutto è particolarmente complicato e priva il paese di nuovi sbocchi occupazionali. Ciò comporta un effetto perverso per cui i bassi investimenti stranieri costringono il paese ad indebitarsi con l’estero. Infatti, ciascun cittadino ha un debito con l’estero di 82 dollari, mentre gli investimenti stranieri raggiungevano appena i 2,5 dollari per abitante. Se poi si confronta quest’ultima cifra con gli investimenti dei soli Stati Uniti in Lussemburgo (180 dollari), Gran Bretagna (165 dollari), Germania Ovest (180 dollari) si ha un’idea di quanto trascurabile sia il capitale estero investito in Jugoslavia. L’apertura all’investimento straniero potrebbe arginare l’emigrazione dato che le riforme degli anni ’60 hanno reso teoricamente più facile il licenziamento della manodopera in eccesso, inoltre si potrebbe assorbire manodopera dall’abbandono delle occupazioni agricole. La Jugoslavia investe molto sulla formazione professionale con un’alta percentuale di forza lavoro con istruzione superiore e universitaria in particolare negli anni ’70-’80. Però finiscono all’estero più di 200 mila tecnici, di cui molti con un’alta specializzazione. Le joint-venture potrebbero contribuire ad assorbire questo personale qualificato e al miglioramento qualitativo della manodopera, Esse possono portare know-how, tecniche manageriali, tecnologie di punta oltre a capitali che le aziende jugoslave devono comunque procurarsi all’estero e che furono la causa non ultima del crollo del paese. Infatti, venendo a mancare gli strumenti di direzione dell’economia si finisce con dipendere dalla tecnologia straniera per di più pagata direttamente dalle aziende nazionali con un approccio tecnologico che ha una logica territoriale più che settoriale. 

La Jugoslavia, come molti altri paesi a basso e medio reddito, prende a prestito grandi quantità petro-dollari a interessi bassi che si sono accumulati nei tardi anni ‘70 a seguito degli aumenti del prezzo del petrolio. Gli anni che vanno dal 1976 al 1980, infatti, si caratterizzano per una sorta di bolla segnata da un utilizzo spropositato del credito internazionale. Le imprese prendono a prestito ingenti quantità di denaro, dato che non hanno la possibilità di autofinanziarsi con l’emissione di azioni, che servono per rinnovare le aziende favorendo l’export in Occidente, proprio in un periodo difficile anche per le economie occidentali. L’export, anche in conseguenza della spesa energetica, verso Germania e Italia, colpite dalla recessione, crolla. L’afflusso di capitale straniero arriva a superare la crescita del prodotto lordo. Nel 1979 il deficit della bilancia dei pagamenti è di 3,4 milioni di dollari sfiorando nel 1980 i 18 milioni. 

E così la Jugoslavia si è trovata, come tanti altri paesi, in una crisi finanziaria in cui i bassi tassi di interesse virarono verso gli altissimi tassi dei primi anni ‘80. La svalutazione della moneta porta il debito estero contratto in dollari (il dinaro si svaluta del 40%) ad aumentare enormemente: arrivando a 82 dollari per abitante. L’inflazione è al 20% e i paesi da cui importa ne sono colpiti a loro volta. Il Governo si trova obbligato a garantire prestiti che non aveva trattato e di cui non aveva goduto, ma che tuttavia dovevano essere pagati. Tra il 1984 e il 1988 la Jugoslavia paga 14 milioni di dollari di interessi per un debito di 20 milioni. Il 40% degli introiti delle esportazioni sono destinati a pagare il debito. 

Proprio nel settore del commercio con l’estero per limitare l’indebitamento delle varie repubbliche vengono vincolate a procurarsi valuta estera attraverso l’export con il risultato che le aziende autogestite si lanciano nel campo dell’export tralasciando il mercato nazionale. La corsa alla valuta estera che si viene determinando, riorienta ulteriormente la produzione delle varie repubbliche verso l'esportazione al di fuori dei confini federali, ovviamente a diretto scapito degli scambi interregionali e del mercato interno. Due esempi concreti possono rendere più chiaro tale fenomeno. Nel 1983 l’INA di Zagabria (la principale industria petrolchimica jugoslava) paga un debito contratto con l'estero di 251,1 milioni di dollari attraverso l'esportazione d’ingentissime quantità di nafta grezza, di derivati della nafta e di concimi chimici (in quel periodo la Jugoslavia dipende per 2/3 dall'importazione di petrolio dall'estero). Sempre in quell'anno dalle campagne della Voivodina vengono esportate enormi quantità di grano, zucchero, farina e olio per risanare un debito di 80 milioni di dollari proprio nel momento in cui vi è scarsità di tali prodotti sul mercato nazionale contribuendo all’aumento dei prezzi sul mercato interno (Mangano 2009). Tutto sarebbe reso più facile dall’importazione di capitale tramite joint-venture oppure con l’insediamento diretto di aziende straniere, sistemate in settori non strategici. Il vantaggio del capitale estero è che rischia in proprio è ha già reti commerciali evolute e un mercato estero verso cui esportare. La formazione poi di società per azioni nelle principali aziende autogestite avrebbe potuto evitare i prestiti con l’estero dato l’alto tasso di risparmio nazionale. Nota positiva è la pressione fiscale che è abbastanza bassa mentre i servizi sociali sono quasi interamente coperti dalle comunità d’interessi autogestite. Ma esistono ben 17.000 organismi che possono introdurre imposte di vario tipo in virtù della decentralizzazione. 

Il caso jugoslavo è l’espressione del massimo della democrazia di base con tanto di norme antiburocratiche, di revoca del mandato da parte della base, di non professionalizzazione dei delegati e via dicendo. Le istituzioni dell’autogestione diventano molto complesse con una distribuzione del potere verso la base che presuppongono una classe operaia molto coinvolta e partecipativa e informata sui risultati aziendali. Secondo il dirigente jugoslavo Branko Horvat, le condizioni per il successo dell’autogestione sono il consolidamento della tradizione democratico-rivoluzionaria, una tradizione industriale, alti salari, settimana lavorativa e orario di lavoro ridotti per favorire la partecipazione alla gestione delle aziende e infine un alto tasso d’istruzione (Piccin 2004). 

Inizialmente si parte dalle Imprese Economiche di Stato che secondo il modello diremmo statalista o stalinista dovevano realizzare il piano preparato dal governo. In seguito soprattutto per queste grandi imprese si assiste ad processo di decentralizzazione che va dall’alto verso il basso e che si concluse negli anni ‘70. In poche parole dall’impresa centralizzata si passava all'OCLA (organizzazioni composite del lavoro associato, ossia conglomerati di imprese) da questa all’OLA (Organizzazioni di Lavoro Associato, ossia le singole aziende) e da questa ancora all’OBLA (Organizzazioni di Base del Lavoro Associato, corrispondenti ai reparti di una fabbrica), la cellula di base dell’autogestione nel settore produttivo. Queste imprese in altre parole sono state create dallo stato e non direttamente dai lavoratori e poi in seguito passate all’autogestione dei lavoratori, sebbene teoricamente il processo federativo avrebbe dovuto compiere il processo inverso (Piccin 2004). Le Siz erano il corrispondente delle OBLA nel settore dei servizi e le Mz nelle comunità locali nel campo istituzionale. Le aziende perdono il loro carattere nazionale e diventano aziende locali. Ciò è particolarmente evidente nei servizi. 

I Consigli ai vari livelli si interessano di stabilire i salari delle assunzioni fino ad esprimere la direzione e il direttore di fabbrica. Anche a livello politico i delegati delle unità di base partecipano ai consigli comunali che a loro volta eleggono quelli repubblicani e questi l’Assemblea federale ossia il parlamento. La legge del 1978 sul lavoro associato definisce la proprietà sociale in cui i mezzi di produzione collettivi non appartengono né alle singole unità, né allo Stato, né ai gruppi ma alla società intera. 

Diviene comunque problematico salvare l’autogestione di fronte ad acuta crisi economico-sociale con tanto di disoccupazione, emigrazione, lavoro nero, scioperi, rivendicazioni nazionali per cui la Lega dei Comunisti cerca in qualche modo di diventare un collante per la stabilità. Le diverse legislazioni repubblicane spesso sono poi in contraddizione le une con le altre. In realtà la teoria della “estinzione dello Stato”, che è alla base delle teorizzazioni dei marxisti jugoslavi, ha finito con l’estinguere lo stato federale ma anche per rafforzare i singoli stati delle varie Repubbliche. 

I lavoratori dei settori più arretrati tendono ad aumentare gli introiti personali indipendentemente dalla situazione dell’impresa. La logica alla base dell'autogestione è di eliminare le grandi differenze di reddito tra i lavoratori delle varie imprese. Ma le aziende meno competitive che avevano pochi capitali tendevano ad attingere ai prestiti bancari. Per questa ragione gli accordi sul reddito sganciando il reddito dalla produttività a scapito degli accantonamenti di riserva e dunque dell’accumulazione di capitali diventano essi stessi fonte d’inflazione. Inoltre c’è un’eccessiva tutela per le aziende in perdita (si cerca sempre di evitare il fallimento) che possono accede a fondi di riserva o addirittura a fondi comunali e repubblicani. I prezzi sono un insieme di mercato, pianificazione, accordi di cartello, contratti di fornitura di enti pubblici, accordi tra produttori e consumatori e altri prezzi imposti a livello regionale o statale. L’energia elettrica ha ad es. prezzi diversi a seconda di dove venga erogata. 

La situazione del mercato, seppur di socialismo di mercato, non è davvero ideale. Molti degli scambi avvengono all’interno dell’azienda tra le singole unità di base alcune delle quali hanno maggiori privilegi di altre tanto da creare artificialmente un abbassamento dell'offerta interna. I prezzi stabiliti piuttosto arbitrariamente innescano spesso un aumento generalizzato tanto che le vendite interne dell’Azienda possono superare il reddito reale della stessa Azienda (OLA) (Mangano 2009). 


I salari non sono standardizzati per cui ci possono anche essere differenze notevolissime all’interno della stessa azienda per la stessa mansione e la stessa anzianità. Alla base c’è la volontà di coinvolgere maggiormente il personale legando lo stipendio alla produttività e all’esito della propria unità di lavoro. Il lavoratore non deve quindi considerarsi un salariato sottoposto a un’omogeneizzazione estraniante ma come autogestore e padrone della propria unità. Ma in realtà questa redditività spesso è legata ai privilegi che gode quell’unità nel lavoro associato in una situazione di mercato alterata. I lavoratori non gradiscono queste differenze salariali che spesso sono molto forti. Le aziende di maggior successo non applicano questa direttiva e distribuiscono salari standardizzati. La cosa è paradossale perché i salari standardizzati in rapporto alla stessa mansione sono voluti dai manager che li ritengono funzionali al successo dell’azienda, dai lavoratori e banditi dall’ideologia ufficiale perché reintrodurrebbero il “lavoro salariato”. 

Da un punto di vista più generale però il rapporto tra redditi massimi e minimi è piuttosto basso comunque inferiore a quello sovietico mentre solo la Norvegia ha una ripartizione salariale più livellata (1:2,7-1:4, 1:2,4) (Cheek 2007, 86-87). Però permangono forti differenze di reddito tra regioni: uno sloveno ha un reddito più che doppio di un kosovaro, quasi il doppio di un bosniaco e del 20/30% superiore alla media nazionale. Le differenze di reddito sono il risultato a prima vista paradossale proprio dell’eccessiva democrazia di base. Perché questa favorisce il corporativismo e lo stato manca di strumenti macroeconomici per riparare ai guasti di un’economia lasciata completamente in balia del mercato. 

La disciplina sul lavoro nel “lavoro associato” se in un primo momento aumenta tende però a calare verso negli anni ’70 con un forte aumento delle giornate di assenza per malattia. Tra il 1979 e il 1985 la produttività del lavoro crolla del 20% e i redditi dei lavoratori del 25%. Si ha anche un aumento delle frodi nelle pensioni di invalidità, che costituiscono il 51% dei contributi previdenziali erogati dallo Stato. Più del 10% dei lavoratori sono pensionati prima dei 50 anni sebbene ci fosse l’obbligo dei 40 anni di lavoro. Contemporaneamente si assiste al crollo del PIL del 6% (il 1980 era stato il primo anno a crescita zero), che aumenta ancora di più man mano che si procede verso la caduta della Repubblica. Il livello dei servizi sociali dalla sanità all’educazione è in calo. 

L’agricoltura dopo un inizio che segue sostanzialmente la tendenza sovietica alla collettivizzazione viene ristrutturata e i contadini possono associarsi senza cedere la terra alla cooperativa. Le nuove cooperative si occupano di acquisti e vendite. Dalla cooperativa i contadini possono comprare a prezzi di favore quanto hanno bisogno per il lavoro e anche l’uso personale inoltre sono favoriti anche nell’uso delle macchine agricole che fino al 1965 non possono essere acquistate da privati. Dal punto di vista della forma proprietaria nel 1960 solo l’8,7% della terra coltivabile è ancora proprietà sociale mentre all’estremo opposto tra i paesi socialisti europei c’è la Bulgaria dove è il 60,5%. Da questo punto di vista la Jugoslavia è la più arretrata e parcellizzata d’Europa persino di quanto lo fosse nell’anteguerra. Negli anni ’50 gli investimenti nel settore sono scarsi e il paese è costretto ad importare. La crescita dell’agricoltura avviene negli anni ’60 specialmente delle cooperative agricole che, pur avendo a disposizione meno di un quinto delle terre coltivate, fanno la parte del leone nell’approvvigionamento alimentare e nelle forniture dell’industria [Mangano 2009]. Questa è un po’ la rivincita dell’agricoltura collettivizzata (che ha sempre dato qualche problemuccio in URSS come in Cina) su quella privata. 

La riforma costituzionale cerca di armonizzare gli interessi delle varie repubbliche, costringendole a prendere provvedimenti all’unanimità, avendo ogni repubblica diritto di veto. La presidenza collettiva impone di eleggere ogni anno uno dei suoi membri secondo il principio di rotazione. Sono elementi che accolgono le istanze provenienti dalla “primavera croata” ossia le manifestazioni nazionalistiche degli inizi degli anni ’70 ma che alla fine portano nuovi attriti. 

La riforma creditizia nel 1977, contribuisce alla disarticolazione del sistema portando al disastro il sistema monetario federale ed è stata tra i fattori determinanti nel collasso del Paese. Le banche si sono organizzate su base territoriale, una banca per ogni repubblica, sostenendo principalmente interessi locali. 

Una delle cause principali del fallimento è stata la mancanza di volontà o forse l’impossibilità da parte del governo jugoslavo di attuare una politica restrittiva, in particolare sull'emissione di moneta, combinata con la politica macroeconomica progettata per ampliare le opportunità e gli incentivi per imprese e di operare efficacemente. Il governo che pure avrebbe potuto utilizzare i suoi poteri che precedentemente avevano portato alla stabilizzazione dei prezzi non riuscì ad evitare la trustificazione e la feudalizzazione dei mercati repubblicani che trasformarono l’inflazione da fattore importato in un problema nazionale. 



Alla fine degli anni ’80 il piano di austerity del governo Markovic per combattere l'inflazione è invalidato dall'azione dei governi di Lubiana e Belgrado, che emettono abusivamente moneta, inoltre l’intreccio tra industrie e banche, crea debiti inesigibili, mentre peggiora la situazione economica, che pesano sul bilancio statale dato che sono garantiti del governo. Lo scandalo Agrikomerc il colosso agroalimentare, nel 1987, con l’emissione di cambiali aziendali per il valore di un miliardo di dollari costituisce di per se una componente dell’inflazione. Ma ormai siamo alla fine e il FMI impone lo smantellamento dell’autogestione. 

Con la morte dei padri della patria Tito e Kardelj è venuto a mancare il perno dato dai fondatori del sistema. Questo è stato molto importante in Cina dove a progettare le riforme fu uno dei fondatori della Patria, Deng Xiaoping, che però ha favorito un ricambio della classe dirigente nella continuità e nella stabilità. 

Kardelj aveva parlato del “pluralismo degli interessi” della comunità socialista di Stati degli “slavi del Sud” e anche della classe operaia come “classe per sé”, ma alla fine prevalsero gli interessi corporativi o particolaristici delle singole classi operaie e dei singoli stati (Filippi 2006). Il modello jugoslavo non ha voluto essere un modello “stalinista” riformato ma l’esatto contrario, come quello stalinista ambì ad essere l’esatto contrario di quello capitalista. Questo alla lunga non funziona quasi mai. La Cina trasse molti insegnamenti da queste esperienze e in particolare da quella jugoslava che le riassume un po’ tutte. 

[1] L'elaborazione di questo capitolo sull'esperienza jugoslava deve molto alla tesi del Dott. Manfredi Mangano: La prospettiva storica del Ministro della Produzione: sistemi economici pianificati nella storia del movimento socialista , Università degli Studi di Camerino, 09 dicembre 2009, Facoltà di Giurisprudenza, Corso di Laurea in Scienze Politiche- Relazioni Internazionali e dell'Unione Europea (Mangano 2009)


Bibliografia
Bjarnason, Emil,1997: The Problem of the Socialist Market , 1997
Mangano, Manfredi. 2009 Il ministro della Produzione in prospettiva storica: economia di mercato e economia pianificata nella storia del movimento socialista, 09 dicembre 2009
Schweickart, David. 2006. Economic Democracy: A Worthy Socialism that Would Work , 21Ottobre 2006 ,http://www.luc.edu/faculty/dschwei/ED-Ven.lng.pdf
Lebowitz, Michael.2004: Lecciones de la autogestión yugoslava., 04,2004. http://www.nodo50.org/cubasigloXXI/t...witz_310505.pd
Piccin, Gregorio. 2004. L'esperienza dell'autogestione e la distruzione del mercato unitario jugoslavo, Febbraio 2004, fhttp://www.intermarx.com/temi/jugo.htm
Filippi, Vittorio. 2006. L’esperienza dell’autogestione in Jugoslavia, ottobre 2006

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