Benvenuti

Non indignari, non admirari, sed intelligeri

Spinoza


Il blog si legge come un testo compiuto sulla Cina. Insomma un libro. Il libro dunque tratterà del "pericolo giallo". Un "giallo" in cui l'assassino non è il maggiordomo ma il liberale. Peggio il maggiordomo liberale. Più precisamente il maggiordomo liberale che è in voi. Uccidetelo!!!Alla fine il vero assassino (a fin di bene) sarete voi. Questo sarà l'unico giallo in cui l'assassino è il lettore. A meno che non abbiate un alibi...ça va sans dire.

mercoledì 25 luglio 2012

5.9: Investimenti stranieri e interesse nazionale

5. La via del socialismo

Eco City e industrial park a Taijn

Se si parla di socialismo, non dobbiamo dimenticarci ciò che il socialismo ha realizzato in Cina. Un tempo era terra di fame, povertà, disastri. Oggi niente di tutto questo. Oggi la Cina può nutrire, vestire, educare e curare 1 miliardo e duecento milioni di persone. Penso che la Cina sia un paese socialista, e il Vietnam pure sia una nazione socialista. Essi dicono che hanno introdotto tutte le necessarie riforme al fine di motivare lo sviluppo nazionale continuando a perseguire gli obiettivi del socialismo. Non ci sono regimi o sistemi completamente puri. A Cuba, per esempio, ci sono molte forme di proprietà privata. Abbiamo centinaia di migliaia di proprietari di aziende agricole. In alcuni casi essi possiedono fino a 110 ettari. In Europa sarebbero considerati grandi proprietari terrieri. Praticamente tutti i cubani sono proprietari della loro casa e, per di più, noi accogliamo con favore gli investimenti stranieri. Ma questo non vuol dire che Cuba ha smesso di essere socialista.
Fidel Castro

Gli alti tassi di crescita cinesi consentono un’espansione sempre maggiore del mercato interno L'espansione del mercato interno attira capitali stranieri. Gli investimenti stranieri in questo contesto creano posti di lavoro nel manifatturiero diminuendo la popolazione contadina e ciò contribuisce fortemente al miglioramento complessivo delle condizioni di vita di milioni di cinesi. La Cina rappresenta da sola il più grande ricettore d’investimenti diretti stranieri. A fine 2006 la mole di capitale investito ammontava a oltre 615 miliardi di dollari. 75 miliardi nel solo 2007. (Salickij 2008)

La sfida della globalizzazione la Cina l’ha già vinta attraendo il 65% dei 792 miliardi di dollari ricevuti da 21 paesi asiatici durante i passati cinque anni secondo l’Asian Development Bank. Gli investimenti diretti dall’estero si sono quasi triplicati dal 1980 fino a undici miliardi di dollari nel 1992, dopo il viaggio di Deng nel Sud, triplicandosi ancora a trentaquattro miliardi nel 1994 e raddoppiando poi a sessantuno miliardi nel 2004 fino ai settantadue miliardi nel 2007. (Hutton 2007, p. 97). Questo ha fatto dire a Lee Kuan Yew il padre fondatore di Singapore che la Cina è “un aspirapolvere per gli investimenti stranieri”(Hamlin 2008).

"Le ZES hanno l’obiettivo di attirare non solo capitali esterni, ma anche tecnologie avanzate e modelli sperimentali di gestione, di migliorare la preparazione dei quadri interni, accrescere gli introiti valutari da esportazioni e mobilitare le risorse finanziarie dei cinesi emigrati. Le ZES combaciano con le aree più sviluppate della Cina e sono dislocate per la maggior parte nella regione costiera sud-orientale. Dal 1984 alle zone speciali si sono aggiunti 14 porti franchi sui mari Giallo, Cinese Orientale e Cinese Meridionale, dove vivono decine di milioni di abitanti e si realizza il 23% della produzione industriale ed il 40% dell’export. La potenza complessiva di questi 14 porti raggiunge il 97% del totale e la produttività è qui più elevata di due terzi rispetto alla media nazionale. Le autorità della RPC, in questa loro politica di apertura, hanno sempre eretto forti barriere contro l’ingresso di tecnologie obsolete o secondarie ed incentivato in ogni modo la creazione di centri di ricerca ad opera delle maggiori corporation straniere, dove decine di migliaia di scienziati, ingegneri e tecnici cinesi lavorano con tecnologie di ultimissima generazione. Queste corporation, inoltre, finanziano anche stages di giovani specialisti cinesi in migliaia di università del vecchio e nuovo mondo. Dall’inizio degli anni '90 infine hanno cominciato a formarsi in Cina i tecnoparchi (zone di alta tecnologia), in stretto collegamento territoriale e amministrativo con le ZES, la cui vicinanza permette al personale dei parchi di cooperare vantaggiosamente con le corporation straniere e partecipare allo scambio scientifico internazionale."(Trocini 2011)
Sebbene molti credano che il boom nell’attrarre investimenti sia dovuto ai bassi salari, che però sono minori in altre parti del mondo, in realtà ciò è dipeso molto dalla qualità della forza lavoro:“Non è solo lo stipendio che cresce; le aziende comprano condizionatori per i dormitori dei lavoratori, forniscono cibo migliore e creano un ambiete migliore per i lavoratori” secondo Michael Kleist, autore di Global Sources' China Supplier Survey.  L’evidenza mostra che puntare nella direzione del lavoro a buon mercato non è la sola ragione per la quale la Cina eccelle nel settore manufatturiero. Il livello degli stipendi in India è molto minore. (R-Squared 2006).
È una convinzione diffusa che la Repubblica popolare cinese attragga i capitali stranieri principalmente grazie alle sue gran­di riserve di manodopera a buon mercato, ma non è così, dato che il mondo è pieno di serbatoi di forza-lavoro, senza che nes­suno di essi sia risultato altrettanto attraente per il capitale. La mia tesi è invece che la Cina attira i capitali soprattutto per l'al­ta qualità della sua forza-lavoro in termini di salute, istruzione e margini di autonomia, unita alla rapida espansione delle condi­zioni di domanda e offerta per la mobilitazione produttiva di queste risorse all'interno del paese. Questa combinazione non è stata creata dal capitale straniero, ma è il frutto di un processo di sviluppo fondato sulle tradizioni locali, ivi compresa la tradi­zione rivoluzionaria che ha portato alla costituzione della Re­pubblica popolare cinese. In questo processo il capitale stranie­ro è intervenuto solo alla fine, per certi aspetti in sinergia con tali tradizioni, ma per certi altri in conflitto con esse. I "sensali" che hanno facilitato l'incontro fra capitalisti stranieri da un lato, e manodopera, imprenditori e funzionari governativi cinesi dal­l'altro, sono stati i capitalisti cinesi della diaspora. (Arrighi 2008, p.388).
L'alta qualità della forza lavoro cinese è ribadita anche da un ricercatore cinese. Scrive Chai Fang dell’Istituto di ricerca sull’economia del lavoro e sulla popolazione dell’Accademia di Scienze sociali; "La qualità della forza lavoro cinese non è affatto così bassa come si pensa. Si può affermare senza esagerare che, rispetto ai paesi allo steso livello di sviluppo e persino ai paesi pie­namente sviluppati, la qualità della nostra forza lavoro è nettamente superiore. Esperti di sviluppo economico hanno dimostrato che la percentuale di iscrizioni alla scuola media è una variabile della crescita economica, in grado di indicare il grado di crescita economica. Tra i lavoratori provenienti dalle campagne di età compresa tra i 20 e i 30 anni, la stragrande maggioranza ha terminato le scuole medie e un numero considerevole ha anche terminato le scuole superiori. Di conseguenza, la forza lavoro cinese è un punto di forza, non solo perché a basso costo, ma soprattutto per la sua alta qualità."  (Cai Fang 2008)

Nell'intervista ad Oriana Fallaci, Deng afferma: "In ultima analisi, il principio generale del nostro sviluppo economico è ancora quello formulato dal Presidente Mao, che è di contare principalmente sulle nostre forze e sfruttare, come fattore secondario, l’assistenza esterna. Fino a che punto ci apriamo all’estero e ammettiamo capitali stranieri sarà di importanza relativamente scarsa che non potrà intaccare il nostro sistema socialista di proprietà pubblica dei mezzi di produzione. Assorbendo capitali stranieri e tecnologia ed anche permettendo agli stranieri la costruzione di impianti industriali nel nostro paese, tutto ciò può giocare un ruolo soltanto complementare rispetto ai nostri sforzi di sviluppare le forze produttive in una società socialista". . L'intervista continua: "D.: Significa questo che non tutto è poi così malvagio nel capitalismo? R.: Dipende da come definisci il capitalismo. Ogni capitalismo è superiore al feudalesimo. E non possiamo dire che tutto ciò che vi è di sviluppato nei paesi capitalistici sia di natura capitalistica in quanto tale. Per esempio, la scienza, la tecnologia –ed anche un’avanzata organizzazione della produzione è una sorta di scienza- sarà utile in ogni società o paese. Intendiamo acquisire tecnologia avanzata, scienza e una gestione efficiente. Tutte queste cose non hanno un carattere di classe." (Deng Xiaoping 1980).

Gli stessi problemi si posero in URSS ai  tempi di Lenin:
Per Lenin i termini della situazione sono chiari. Intanto occorre tener conto dell'insegnamento di Marx: «L'interesse principale e fondamentale del proletariato dopo la conquista del potere statale consiste nell'aumentare la quantità dei prodotti, nell'accrescere in proporzioni grandiose le forze produttive della società» (LO, 33; 169). In secondo luogo, è evidente che il potere sovietico non può reggere se non risolve il problema della miseria disperata e della fame che colpisce il popolo russo. Per rilanciare la produzione agricola occorre fare concessioni generose ai contadini, e gridare allo scandalo per questo «significa porre gli interessi corporativi degli operai al di sopra degli interessi di classe; significa sacrificare gli interessi di tutta la classe operaia agli interessi del vantaggio immediato, temporaneo, parziale degli operai, sacrificare la loro dittatura» (LO, 32; 321). Per rilanciare la produzione industria­le, s'impongono concessioni ancora più generose agli specialisti borghesi e al capitale russo e internazionale disposto a collabo­rare con la NEP. A suscitare disorientamento sono soprattutto le aperture al capitale straniero della cui tecnologia avanzata si ha assoluto bisogno e al quale vengono garantiti profitti eccezionali; ma non è la protesta contro questa politica, è questa politica a essere «un aspetto della lotta, la continuazione della lotta di classe sotto un'altra forma» (LO, 32; 326) (Losurdo 2013).
Rapporto tra investimenti diretti ed esportazioni
Un terzo degli investimenti stranieri erano originariamente nel turismo e nei servizi e il resto in processi di assemblaggio e produzione industriale. Gli investimenti stranieri si sono poi concentrati soprattutto nell’automobile, televisori, elettronica, computer e altri prodotti ad alta tecnologia. Si è naturalmente portati a pensare che gli stranieri siano andati ad investire per la mancanza di sindacati, manodopera sottopagata e via dicendo. In realtà investire in Cina è questione di vita o di morte per molte compagnie multinazionali. Bisogna dire che chi investe in Cina non lo fa più perché ci sono stipendi bassi. Sono più bassi in Indonesia, India, Vietnam, Bangladesh (Hamlin 2008).

C’erano due alternative per lo sviluppo, fare l'accumulazione originaria sfruttando i contadini, essendo la Cina un paese prevalentemente agricolo, oppure importare i capitali da chi ne è in possesso. La scelta è stata quella leninista della NEP. L’esperienza storica mostra che nessun paese si è rovinato a causa dei capitali stranieri ma tutti, chi più chi meno, ne hanno tratto profitto.

Con il tempo gli investimenti sono diventati vantaggiosi non solo per gli stipendi relativamente bassi, ma anche per il favorevole e dinamico background. Paese con moltissimi ingegneri (ogni hanno sfornano 600/700 mila), mano d’opera specializzata, burocrazia non eccessiva, corruzione tutto sommato non particolarmente alta per questo tipo di paesi e comunque minore dei paesi limitrofi, c’è il maggior numero di ricercatori al mondo dopo gli USA con settori d’eccellenza nell’aviospaziale, navalmeccanico e biotecnologico, e perché c’è un basso il tasso di criminalità e non c’è la mafia, che sembra sia la più grande azienda italiana (Mafia 2007). Le infrastrutture poi sono da primo mondo. Soprattutto c'è un enorme mercato interno.

Negli anni '90 le aziende americane fecero a gara ad investire in previsione dello sviluppo del mercato interno. "E 'il più grande mercato nel futuro di tutto mondo", sosteneva Paul Donovan, presidente di Asea Brown Boveri sistemi vegetali. Quando Shi Dazhen, ministro cinese di energia, passò per Washington, circa 200 rappresentanti di società statunitensi accorsero pendendo dalle sue labbra. Il Financial Times osservava: "La Cina è considerata il mercato del mondo in più forte espansione per gli aerei ... La società statunitense Boeing, stima che le vendite di aerei commerciali nel paese nei prossimi due decenni saranno del valore di 100 miliardi di dollari che lo rende il terzo maggior mercato di trasporto aereo nel mondo dopo gli Stati Uniti e il Giappone ... le autorità stanno ora rivolgendo la loro attenzione al miglioramento delle strutture aeroportuali per far fronte alle previsioni di crescita dei passeggeri del 10 per cento all'anno per i prossimi venti anni, rispetto a una previsione di aumento a livello mondiale del 5,1 per cento." (Lessons 1996)

La grande produttività dei lavoratori cinesi, come causa degli investimenti è probabilmente un mito da sfatare. Come è da sfatare il mito secondo il quale la crescita impetuosa dipenderebbe esclusivamente dagli investimenti stranieri. Essi costituiscono solo il 15% degli investimenti complessivi negli anni ’90 e nonostante questo la crescita economica non è crollata durante la crisi delle tigri asiatiche del ‘97 e ancora meno influisce ora.

Zone Economiche Speciali: 
la porta d'ingresso alla Cina
Dunque la scelta di Deng fu di partire innanzitutto dal primario ossia dall’agricoltura, in seguito sviluppare l’industria attraendo investimenti stranieri soprattutto nelle zone costiere, dove già esisteva una manodopera specializzata, capacità tecniche, infrastrutture ed esperienza manageriale ecc. Queste sono anche le zone più vicine agli sbocchi commerciali delle merci per gli investitori stranieri. I primi investimenti vengono da Hong Kong, Taiwan, Macao, dalla città a maggioranza cinese di Singapore e in generale dai cinesi d’oltremare. I paesi di sbocco delle merci sono, oltre alle zone già citate anche Giappone, Corea Sud e Stati Uniti. Hong Kong e Taiwan sono sul territorio cinese e la gestione delle aziende può essere fatta a livello personale da gente già abituata ai legami del guanxi ossia del sistema di relazioni interfamigliari e amicali e pienamente inserita nella mentalità cinese. I due terzi degli investimenti stranieri provengono da Hong Kong, gli stessi investimenti di Taiwan passano per l’ex colonia britannica e avvengono all’inizio in alleanza con imprese locali. Seguono Taiwan con l’8,3 e Singapore con il 2,2%. Questi sono investimenti nell’industria leggera con metodi labour intensive. Sono stati importanti anche quelli americani con il 6,4 e giapponesi con il 4% in particolare per il know how. Questo fa giustizia della leggenda secondo cui sono gli americani a puntare sullo sviluppo della Cina. Lo sviluppo della Cina viene fatto inizialmente principalmente con capitali cinesi. Gli americani intervengono in seguito quando non si potrà farne a meno, e subito a muoversi sono i sino-americani. "Dei 45.6 miliardi di dollari in investimenti diretti dall’estero ancora nel 1998, solo 3.9 miliardi vengono dagli USA e 3.4 Giappone. Il resto viene da cinesi d’oltremare di Hong Kong, Taiwan, Singapore e Macao. Ma dopo che Hong Kong e Macao si sono ricongiunte alla madrepatria, non si dovrebbero nemmeno considerare “investimenti stranieri” "(Yechury 1999).

Nel 1992 sono già 80.000, soprattutto in joint-venture, le imprese straniere impiantate in Cina. La trasformazione delle unità di lavoro cinesi è stata resa possibile innanzi tutto dalle commesse delle imprese finanziate con capitali hongkonghesi e taiwanesi, mentre gli investimenti europei e americani, come abbiamo visto, sono stati di molto inferiori. Le joint venture con aziende straniere hanno comportato in qualche misura l'adozione di un modello aziendale moderno (Cheek 2007, p. 94). la stessa ristrutturazione delle aziende statali è stata influenzata anche dalle aziende straniere che investivano in China in Joint-venture con aziende statali (Cheek 2007, p 85).

Le zone speciali (SEZ) della Cina
Comunque la costa orientale della Cina è stata la porta d’ingresso dei capitali nel paese perché ne costituiva anche la via d’uscita delle merci. La Cina era, infatti, già prima dell’apertura la principale fornitrice di Hong Kong, costituendone il retroterra. L’apertura della Cina all’esterno è avvenuta per tappe. Dopo il 1980 sono state create cinque zone economiche speciali a Shenzhen, Zhuhai e Shantou nella provincia del Guangdong, a Xiamen nel Fujian come nella provincia dello Hainan; nel 1984, è la volta delle città costiere ossia Dalian, Qinhuangdao, Tianjin, Yantai, Qingdao, Lianyungang, Nantong, Shanghai, Ningbo, Wenzhou, Fuzhou, Guangzhou, Zhanjiang et Beihai; in seguito si è trasformato il delta dello Yangtse, il delta di Zhujiang (costa delle Perle), la regione del delta a sud di Fujian, la penisola di Shandong e la penisola di Liaodong in zone di apertura economica; più tardi si sono aperte Pudong a Shanghai e alcune città lungo lo Yangtse. E’ così che una striscia territoriale a forma di T lungo lo Yangtse e il litorale si è aperta economicamente. A partire dal 1992, l’apertura si è estesa verso l’interno del paese. E’ ovvio che la strategia si basasse anche sull’ottimizzazione delle spese in infrastrutture che non devono essere disperse lungo il territorio altrimenti, diventano poco fruttuose. Per esempio la Cina ha aperto tutte le città alla frontiera e tutte le capitali delle provincie. Si sono stabilite 15 zone franche in grandi e medie città, 49 zone di sviluppo economico e tecnico di livello nazionale e 53 zone per l’alta tecnologia. La strategia di sviluppo iniziata nelle regioni costiere ha poi interessato il bacino dello Yangtse (centro) fino alle regioni di confine dell’ovest.

L’entrata della Cina nel WTO ha segnato il passaggio dall’apertura economica a senso unico (cioè della sola Cina verso l’esterno) a quella bidirezionale. Così gli altri paesi sono stati costretti ad aprirsi a loro volta. Sebbene molti prevedessero catastrofi c’è stata un’influenza positiva dell’ingresso nel WTO.

Come ha scritto il Financial Times:
Tre anni dopo il suo ingresso nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (nel 2001), l’influenza della Cina nel commercio mondiale non è solo importante. È cruciale. Per esempio, la maggioranza dei computer Dell venduti negli Stati Uniti vengono fabbricati in Cina, così come i lettori DVD della società giapponese Funai Electric. La Funai esporta annualmente circa 10 milioni di lettori DVD e televisori dalla Cina agli Stati Uniti, dove vengono venduti soprattutto nei negozi Wal-Mart. Il commercio della Cina con l’Europa ha raggiunto nel 2004 il valore di 177.200 milioni di dollari, con gli Stati Uniti di 169.600 milioni e con il Giappone di 167.800 milioni (Johnson 2005).
Investimenti diretti in Cina
Le prime città ad aprirsi non sono state scelte a caso, avevano dei vantaggi di tipo geografico: Shenzhen è vicino ad Hong Kong, Zhuhai a Macao e Xiamen è di fronte a Taiwan. Il Guandong fino alla fine degli anni ’90 aveva ricevuto il 40% degli investimenti stranieri totali con un tasso di crescita annuo del Pil del 14,4% dal 1983 alla fine degli anni ’90 e già nel 1992 aveva il 90% dei prezzi stabiliti dal mercato (Brignoli 1996). In un primo tempo si sono privilegiati gli investimenti dei cinesi d’oltremare, inoltre Hong Kong e Macao sarebbero ritornate alla Cina. mantenendo per altro la propria autonomia interna sulla base del modello di "Una nazione sola, due sistemi", potendo però contare su un’amministrazione autonoma da pressioni straniere. I cinesi d'oltremare hanno come vantaggio loro conoscenza della lingua, delle usanze e delle abitudini locali, spesso possono contare su legami famigliari, di parentela e rapporti personali e comunitari - rafforzati da “generose donazioni a favore delle istituzioni locali - e al trattamento preferenziale loro riservato dai funzionari del Partito comunista (Arrighi 2008, pp. 388). ”Tra i cinesi d'oltremare, sono stati i tongbao, ossia coloro che provengono da Hong Kong e Taiwan a portare gli investimenti più consistenti e ad aprire il maggior numero di imprese in joint venture (Cheek 2007, p. 156). Infatti ben l’80% degli investimenti provengono da persone di origine cinese, in prevalenza di Hong Kong.  Quando si parla di cinesi d'oltremare occorre sapere che tre quarti delle fortune dei 20 uomini più ricchi dell'asia orientale è nelle mani di magnati etnico-cinese. Alcuni hanno usato i loro legami ancestrali per investire in Cina. Dhanin Chearavanont, l'uomo più ricco della Thailandia, controlla CP Group, uno delle più grandi corporation del Paese. E' stato il primo grande investitore straniero in Cina nel 1979 .

L’esperienza limitata dell’inizio avrebbe potuto dare l’occasione e il tempo alle industrie nazionali di ristrutturarsi. Inoltre c’era anche un altro aspetto più politico come affermò Deng Xiaoping: “occorre iniziare con un’esperienza pilota e aprire una finestra all’intero paese con lo scopo di aprire la strada a una riforma più profonda e un’apertura più larga; se per caso l’esperienza si tramutasse in una sconfitta, importerebbe poco, giacché l’esperienza non è così estesa”. Ancora una volta uno strumento quale le Zone economiche speciali sono diventate una palestra di sperimentazione a tutto campo:
Esse hanno avuto come obbiettivo la sperimentazione dell’economia socialista di mercato, delle legislazioni, di riforme (ad es. degli stipendi), dell'introduzione di tecnologie, delle tecniche amministrative ecc che poi sono state recepite e introdotte all’interno. Un vero laboratorio economico-politico. Sotto certi punti vista le riforme economiche furono una continuazione delle sperimentazioni del periodo maoista e si fondavano sulle linee guida delle 'quattro modernizzazioni' avanzate dal Partito nel 1964 seguendo una tradizione di coraggiosa sperimentazione da parte del PCC, che risaliva alle sue prime basi rurali degli anni Venti (Cheek 2007, p. 55).


Investimenti cinesi in America latina
Scrive uno dei maggiori economisti viventi Joseph Stiglitz:
…i paesi dell’Asia sapranno gestire la globalizzazione; sono stati capaci di profittarne senza farsi sfruttare da questa, e questo spiega l’essenziale del loro successo […] Anche durante la recessione del 1997-98, Cina e Vietnam hanno continuato a crescere. La Cina ha seguito una macropolitica espansionistica classica (e non le politiche che il FMI raccomandava, d'altro canto, in Asia Orientale): dopo il raddoppio della sua crescita fino ad un onorevole 7%, seguita e da un 8 e 9% (e qualcuno pensa che queste cifre siano inferiori alla realtà). Se si considerano le provincie cinesi come paesi distinti, con popolazioni che a volte oltrepassano i 50 milioni di abitanti per cui, di fatto, sono più grandi di molti stati, la maggioranza dei paesi del mondo con il maggiore indice di crescita, stanno in Cina. Ed è importante tener conto che questi governi hanno fatto in modo che i benefici non arrivino unicamente a qualcuno e si dividano ampiamente fra tutti. Non solo stanno attenti alla stabilità dei prezzi, ma anche alla stabilità reale, vigilando per creare nuova occupazione per incorporare la popolazione attiva (Stiglitz 2006, p.66)
D’altra parte l’economia cinese si tenuta in disparte rispetto alla rapida finanziarizzazione dell’economia. Uno dei più triti luoghi comuni sostiene che le multinazionali occidentali abbiano appoggiato in maniera entusiastica lo sviluppo cinese. Niente di più falso, lo sviluppo è invece stato possibile grazie alla tenacia con cui il PCC e Deng ha ricercato principalmente una sorta di alleanza con i cinesi d'oltremare per aprire la Cina agli scambi con l'estero che, scrive Arrighi, “si è dimostrata molto più fruttuosa della politica della "porta aperta" praticata nei confronti delle grandi aziende americane, europee e giapponesi. Infatti, le grandi multinazionali, infastidite dai vincoli posti dalla legislazione cinese alle assunzioni e ai licenziamenti di personale, all'acquisto e alla commercializzazione dei prodotti e all'esportazione di profitti fuori della Cina, tendevano a limitare gli investimenti al minimo necessario che consentisse loro di tenere un piede nel paese. [...] Così, mentre le multinazionali continuavano nel pianto greco sul "clima sfavorevole agli investimenti", gli imprenditori cinesi cominciavano a tornare da Hong Kong al Guandong quasi con la stessa fretta (ma in numero assai maggiore) con cui quarant'anni prima erano fuggiti da Shangai a Hong Kong" (Arrighi 2008, pp.388-389).

Da notare che contrariamente a quanto si pensa il boom degli investimenti esteri non è avvenuto grazie agli investitori americani o Occidentali e che si sono lamentati delle troppe tutele offerte ai lavoratori dai 'comunisti cinesi' (eufemisticamente chiamate "clima sfavorevole agli investimenti"). Ma all'alleanza “fra il Partito comunista cinese e gli imprenditori cinesi d'oltremare molto prima del giro di vite di Tienanmen, avvenimento, questo, che ha marcato invece un ulteriore raffreddamento degli entusiasmi occidentali per gli investimenti in Cina a seguito del peggioramento delle relazioni fra Cina e Stati Uniti" (Arrighi 2008, pp.388-389).

Infatti, dal 1982 furono installate le prime Zone Economiche Special – in primo luogo con quattro città posizionate strategicamente verso Hong Kong, Macao, Taiwan alle popolazioni cinesi del sud-est asiatico, nel 1984 in altre 14 città e poi nel 1987 in tutto il litorale creando una zona di convergenza economica tra continente e cinesi d’oltremare che riunivano capitali e tecnologie che interessavano alla Cina. Tuttora nonostante il boom degli investimenti stranieri degli ultimi anni la maggioranza degli investimenti diretti provenienti da stranieri sono dei cinesi d’oltremare.

Così la provincia del Guandong si è trasformata in una joint-venture territoriale con Hong Kong e nella valle dello Yang Tsé ci sono più di 6000 imprese taiwanesi, e migliaia di persone si sono trasferite in Cina da Taiwan a Shanghai. Questo lega sempre più Taiwan al continente

Evoluzione degli investimenti 
stranieri in Cina
In seguito sono intervenuti gli investimenti dai paesi asiatici: Corea del Sud e Giappone. In partcolare il Giappone p sempre stato al traino e non ha mai guidato gli investimenti. Nel 1990 era ancora fermo al 5% degli investimenti destinati all'Asia orientale prendevano la via della Cina per poi passare rapidamente al 24% nel 1993, I giapponesi cercano allora di tenere il passo con i loro potenziali concorrenti, i cinesi d'oltremare. Nel 1990 il 75% degli investimenti stranieri, infatti, proveniva da questi ultimi mentre quelli giapponesi erano la trentacinquesima parte.

E quando negli anni novanta l'ascesa cinese prese corpo per effetto della sua stessa forza propulsiva, l'afflusso di capitali europei, giapponesi e americani si intensificò, provocando un aumento del totale degli investimenti diretti dall'estero da 20 miliardi di dollari nel decennio degli anni ottanta a 200 miliardi di dollari nel 2000 e a 450 miliardi di dollari nel 2003. "Ma se gli stranieri stavano investendo," commenta Clyde Prestowitz, "era solo perché i cinesi stavano investendo ancora di più"(Arrighi 2008, 389-390).

La forza dirigente dello sviluppo economico cinese è stata la crescita e il successo dell’economia nazionale. Non furono i capitali stranieri a determinare il successo dell’economia cinese ma fu questo successo ad attrarre i captali stranieri. Alla fine del 1983 sebbene la Cina avesse già una crescita del 9% i capitali stranieri erano meno di due miliardi di dollari. Furono le priorità dell’economia nazionale cinese a determinare l’eccezionale espansione del commercio estero e degli investimenti in Cina (Lessons 1996). Arrighi a questo punto può affermare che “i capitali stranieri stavano saltando sul carro vincente di un'espansione economica che non erano stati loro a iniziare e di cui non avevano mai preso la guida. È vero che gli investimenti stranieri hanno giocato un ruolo molto importante nel promuovere l'esplosione nell'andamento delle esportazioni cinesi, ma, …tale esplosione rappresenta solo un episodio tardivo dell'ascesa economica cinese "(Arrighi 2008, 390). In effetti, solo a partire dal 2000 si ha un incremento netto del differenziale export-import e dunque è pienamente giustificata l'affermazione di Arrighi.
In ogni caso, anche da questo punto di vista il capitale straniero (e americano in particolare) ha avuto bisogno della Cina più di quanto la Cina abbia avuto bisogno dei capitali stranieri. Le multinazionali americane, dall’Intel alla General Motors, "si trovano davanti un nodo da sciogliere: o investono in Cina sfruttando il suo basso costo del lavoro e la sua rapida espansione economica oppure sono sconfitte dalla concorrenza". La Cina, che un tempo era solo un centro dell'industria manifatturiera, è diventata ora il luogo dove si sviluppano e si vendono prodotti ad alta tecnologia. "Tutti quanti vogliono andare in Cina, lì ci sono un miliardo e duecento milioni di consumatori," sostiene il presidente del gruppo commerciale americano AEA. E 'il vicepresidente di un gruppo di tecnologie avanzate come Corning dichiara: "Sono ben pochi i paesi che potrebbero diventare altrettanto importanti"(Arrighi 2008, 390).

Crescita mese per mese 
degli investimenti stranieri
Il governo usa il numero dei potenziali consumatori e il suo rapido sviluppo per ottenere concessioni. Prima dell’adesione al WTO i dazi venivano usati come forma di pressione affinché le compagnie straniere non importassero semplicemente dall’estero ma producessero in loco. Qualora la produzione fosse esportata e i profitti fossero stati utilizzati per aggiornare la tecnologia lo stato concedeva esenzioni fiscali (Lessons 1996).

Ricapitolando fu il successo dell’economia nazionale ad attirare i capitali dei cinesi d’oltremare. Dopodiché divenne indispensabile per chiunque investire in Cina pena la marginalizzazione dal mercato mondiale, da quello asiatico (e da quello interno cinese) perché come ebbe a dire un manager americano "Mi mostri un'azienda che non ha spostato le linee di produzione in Cina, e io le dimostrerò che quell'azienda può essere battuta sul piano della concorrenza".
Nei primi due mesi del 2010 si erano costituite 3.163 imprese con partecipazione di capitali esteri in gran parte imprese miste con lo stato o aziende cinesi che oggi puntano all'eccellenza:
Gli IED contribuiscono pure a migliorare la competitività dei prodotti “made in China” e questo è  importante per il governo del paese, che considera  gli investimenti e le esportazioni i due pilastri  dell’economia nazionale. Gli IED hanno inoltre il  merito di non pesare sul bilancio dello stato, né  sul debito estero, dal momento che la parte cinese  contribuisce all’impresa mista soprattutto con  terreni, edifici e costruzioni, senza esborsi  finanziari, mentre il partner straniero contribuisce  con tecnologie e stanziamenti in denaro.  All’inizio, negli anni '80-90, la metà degli IED  provenivano da Hong Kong, ma considerando  anche Taiwan e Singapore si arrivava al 70% di  questi investimenti finanziato dei cinesi residenti  all’estero, per l’esattezza entro il territorio della  Grande Cina. Adesso, però, assicurano i sinologi,  si stanno verificando delle trasformazioni in  questo tipo di investimenti, tant’è che sono sempre di più quelli effettuati dalle grandi  compagnie multinazionali, che posseggono un  maggiore contenuto di nuove tecnologie e ricerca, impiegano più quadri locali e si orientano verso i settori merceologici più avanzati della RPC. Gli IED contribuiscono pure a migliorare la competitività dei prodotti “made in China” e questo è importante per il governo del paese. (Trocini 2011)
Tra le 500 più forti multinazionali 200 hanno investito in Cina. La Cina deve apprendere i metodi di gestione dai paesi avanzati. Non esiste una tecnica di gestione aziendale socialista. In Cina le aziende straniere non occupano un posto molto importante se non in alcuni campi: articoli chimici d’uso corrente, bevande, pneumatici e articoli elettronici e le aziende cinesi sono sottoposte alla loro influenza. L’intervento dei capitali stranieri migliora i prodotti cinesi in modo che possano competere sul mercato internazionale. Un’economia socialista non può reggere senza la sua integrazione nel mercato internazionale pena l'autoisolamento dalle tendenze economiche internazionali e dall'accessibilità al know how e alle nuove tecnologie. Comunque i prodotti delle aziende a capitale straniero non costruiscono che una parte poco significativa del mercato interno secondo le inchieste del Dipartimento di Stato americano.

Nell’economia mondiale l’investimento multinazionale sta diminuendo; ma la Cina è stata per anni in testa tra i paesi in via di sviluppo nell’attirare capitali. Nel 2004 ha anche sorpassato gli USA per la capacità di assorbire investimento stranieri. Più di 500 miliardi di dollari sono stati attirati e 250.000 aziende sono state portate in Cina. Nel 2007 le imprese straniere che dal 1980 avevano investito in Cina erano 594.000 e l’investimento globale ammontava a 691,8 miliardi di dollari (Harris 2007).

Oggi però tasse e facilitazioni per favorire investimenti stanno cambiando; un processo che altri paesi hanno vissuto prima della Cina: Negli anni 80 e 90 la Cina ha favorito gli investimenti diretti dall’estero che avevano un trattamento preferenziale pagando tasse che erano la metà di quelle pagate dalle aziende nazionali e inoltre non pagavano tasse per i loro beni capitali importati. Dal gennaio del 2008 esse pagano il 25% di tasse societarie come quelle nazionali. In passato le aziende locali pagavano il 33% contro il 15% di quelle straniere [Harris 2007]. Molti hanno criticato l’aumento delle tasse che assieme ai costi della manodopera, dei terreni della rivalutazione della moneta e alle tasse sull’export minerebbero lo sviluppo. Ma questo è un passaggio a cui sono già pervenuti tutti paesi industrializzati dell’Asia Orientale (Steinbock 2008).

Gli investimenti stranieri sono importanti in quanto portano capitali che si sono aggiunti a quelli cinesi, know-how, capacità tecniche e commerciali, sbocchi commerciali per le merci, innovazione tecnica che è sempre stata una palla al piede dei paesi socialisti, il marketing e la presentazione delle merci e dei brand cinesi e competitività come stimolo per la ristrutturazione delle aziende di stato. Le Joint Venture, che sono il sistema più diffuso nella produzione per l’estero, sono state il passo necessario per acquisizione tecnologia di moderna. Un esempio è la Siemens per la metropolitana di Shanghai, oppure l’importazione pianificata dei cinesi negli anni ’90 di macchine e di equipaggiamenti.

Gli Stati Uniti e il Giappone utilizzano all’incirca il 5% di tecnologia straniera nei vari campi di produzione mentre la Cina ne utilizza ancora oggi il 50%. Il risultato dell'importazione di tecnologie estere è stato, da questo punto di vista positivo:

I paesi che riceveranno più investimenti stranieri nei prossimi anni


Si lancia un nuovo prodotto, spesso a farlo è una multinazionale straniera, e nel giro di qualche mese una moltitudine di produttori, fra cui molte aziende private cinesi, cominciano ad analizzarlo e decifrarlo. Parte un’accesa concorrenza che fa flettere subito i prezzi. Passa un po' di tempo e i produttori sono già in caccia di nuovi mercati, spesso oltremare. A mantenere in moto questo meccanismo c'è una pluralità di forze che ha prodotto così uno dei mercati più competitivi del mondo. L'ondata di marea degli investimenti stranieri [..,] ha insegnato al paese alcune delle tecnologie più all'avanguardia. Un vorace appetito per le tecnologie estere spinge in avanti la vita del sistema economico, mentre in tutto il paese, dalle rovine di quello che era una volta il suo sistema di pianificazione centralizzata, germoglia lo zelo imprenditoriale. (Arrighi 2008)
Un esempio è Suzhou Industrial Park (SIP) il più moderno dei 40 parchi della Cina. La città di Suzhou era precedentemente una zona turistica. Ora è industrializzata ed è per PIL la settima città del paese (Bechtel e Bell 2002). Il parco è l'unico progetto di joint venture tra il governo cinese e un governo straniero - Singapore. L'obiettivo è di ottenere tecnologia avanzata, modernizzare le tecniche commerciali e importare l’esperienza di gestione di Singapore con il suo sviluppo economico in piena espansione, offrendo agli investitori stranieri una via d’accesso al mercato cinese.

Insomma gli investimenti stranieri hanno migliorato le merci cinesi portando il know how che mancava ai cinesi. Ma non sono stati i cinesi “a dettare le regole di funzionamento del capitalismo globale, ma dentro questo processo sono riusciti con intelligenza e pazienza a far valere i propri punti di forza, suscitando reazioni scomposte da parte dei paesi avanzati, che mai come ora vedono in bilico la propria superiorità e i propri privilegi. (Graziosi 2007).


Il Vietnam è un'altro paese socialista che 
attrae parecchi investimenti stranieri
Secondo l'analista Walter Arnold la Cina ha imparato dall'esperienza di industrializzazione di altri paesi del Terzo Mondo, e intende mantenere il controllo nazionale del suo sviluppo. Nel settore automobilistico non viene permessa la “colonizzazione” come in Brasile o in Messico, dove i giganti globali dominano larga parte della produzione. La Cina lungo aspira ad instaurare un settore vitale interno dell'auto, un obiettivo che viene raggiunto creando legami strategici con tecnologia e capitale esteri al fine di rafforzare alcuni dei produttori cinesi per la competitività a livello mondiale. (Cit. in Tucker 2007).

Nel 1995, la Shanghai Automotive Industry Corporation [SAIC] e General Motor hanno firmato un accordo di joint venture di 1,57 miliardi dollari per costruire un impianto a Pudong. Il nuovo impianto automobilistico è stato progettato per produrre 100.000 berline all'anno, e si è deciso di produrre due modelli Buick modificati per la Cina. La GM-Shanghai Pudong è una struttura equipaggiata di macchinari e robotica più recenti per il settore automobilistico. I principali produttori giapponesi sono anche essi coinvolti in operazioni di joint venture in Cina. Il maggiore accordo è stato nel 2002, quando la Nissan ha concluso i negoziati con la statale Dongfeng Motor Group per la creazione di una società di proprietà congiunta per la produzione di autocarri, pullman e automobili (Tucker 2007).

Il frutto di questa politica lo si vede ha fatto sì che i gruppi automobilistici cinesi “sono venuti a trovarsi nell'invidiabile posizione di avviare programmi di cooperazione industriale contemporaneamente con più gruppi stranieri fra loro concorrenti, come il caso della Guangzhou Automotive con Honda e Toyota, una cosa a cui Toyota non aveva mai in precedenza acconsentito. Questo tipo di accordi ha permesso ai cinesi di appropriarsi delle procedure migliori di entrambi i gruppi stranieri, e di essere, nell'ambito dell'accordo a tre, l'unico soggetto in grado di accedere alle conoscenze degli altri due" (Arrighi 2008, 391-392).

Il governo cinese ha accolto bene gli investimenti diretti dall'estero, ma “solo se valutava che fossero funzionali all'interesse nazionale del paese. Per esempio, all'inizio degli anni novanta alla Toshiba e ad altri grandi gruppi giapponesi venne detto, senza troppe cerimonie, che, se non avessero portato con sé anche tutto l'indotto della loro componentistica, potevano fare a meno di venire in Cina" (Arrighi 2008, 391) Le aziende che competono per gli investimenti in Cina devono offrire trasferimento di tecnologia, training per lavoratori cinesi e spesso investimenti in progetti infrastrutturali. Per fare un esempio per avere un rapido accesso al mercato cinese, alla Boeing fu chiesto di assistere la principale industria aeronautica di Xian in modo che producesse prima delle parti e in seguito intere sezioni di aerei e infine di produrre aerei completi assieme alla Cina. Peter Franssen afferma così che il clima complessivo è insomma molto diverso da quanto gli stranieri dettavano legge in maniera incontrastata:
Nel 1935 le imprese straniere controllavano l’80% della produzione industriale del ferro e dell’acciaio, il 56% dello sfruttamento del carbone, il 76% della produzione di elettricità, il 57% dell’industria del tabacco, il 64% di quella del cotone. Avevano il controllo del 70% del trasporto merci via acqua e del 90% di quello ferroviario. Le banche straniere monopolizzavano il settore finanziario. Tra il 1894 e il 1937 hanno investito 1,5 miliardi di dollari in Cina che hanno fruttato 2,08 miliardi. Hanno prestato al governo cinese 700 milioni di dollari avendone in cambio 1,43 miliardi di dollari solo di interessi (Franssen 2007).
La Cina ha una cattiva esperienza dell’intervento estero nella propria economia. Anche per il legame che si stabilì tra stranieri e “borghesia compradora”. Furono questi a finanziare l'esercito mercenario che schiacciò l’insurrezione di Taiping. La produzione locale di soia, tè e prodotti tessili fu schiacciata dalle importazioni organizzate da questi ultimi assieme ai capitalisti stranieri (Franssen 2007).

Wang Rong, segretario del Partito 
Comunista di Shenzhen celebra 
l'anniversario della storica SEZ
Il Giappone poi fece una politica di spoliazione importando 46 milioni di tonnellate di ferro e 346 di carbone. A Shanghai furono distrutte 2,270 officine, nel delta dello Yangtze venne letteralmente distrutta l’industria. Dopo la guerra il ruolo principale fu preso dagli americani che passarono dall’8% anteguerra all’80%, mentre la metà di tutte le importazioni venivano dagli USA. Le quattro principali famiglie ossia Chiang Kai-shek, Soong, Kung e Tchen Lifou monopolizzavano l’economia a scapito della borghesia patriottica che aveva sostenuto la rivoluzione (Franssen 2007).

Gli investimenti stranieri sono stati usati dai cinesi per rafforzare le'economi nazionale e il socialismo invece di servire gli interessi stranieri infatti "contrariamente a quanto si proponevano, gli Usa non sono riusciti ad assoggettare la Cina al proprio meccanismo di sfruttamento neocoloniale, quale semplice fonte di manodopera a basso costo e mercato per i propri prodotti. Né hanno ottenuto la completa «liberalizzazione» dell’economia cinese che – sottolinea la Commissione – è ancora «dominata da imprese di proprietà statale»: per questo gli Stati uniti «non riconoscono alla Cina lo status di economia di mercato»" (Dinucci 2014). 

Molto importante stanno diventando in questo contesto anche gli investimenti all’estero. Si intensifica l’esportazione di capitali cinesi nei diversi Paesi dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai. La Cina ha una ricca esperienza di investimenti in altri Paesi, accumulate nel corso degli aiuti ai Paesi in via di Sviluppo, iniziati sin dagli anni ’50 del secolo scorso, nonché della realizzazione degli appalti aggiudicatisi all’estero.

La forte crescita delle riserve in valuta pregiata della RPC (aumentate nel 2007 di 400 miliardi di dollari contro i “soli” 250 miliardi dell’anno precedente) ha reso ancora più impellente la necessità di una massiccia esportazione di capitale e la ricerca di nuove aree di investimento. In Cina le riserve valutarie accumulate, come già sottolineato, hanno superato a fine 2007 i 1.500 miliardi di dollari.

Iniziato nei primi anni del nuovo secolo, il programma di investimenti esteri si è prevalentemente orientato sugli investimenti diretti. A fine 2006 gli investimenti diretti all’estero della RPC interessavano 172 Paesi e superavano i 90 miliardi di dollari. Fino a quel periodo circa cinquemila aziende cinesi avevano aperto all’estero oltre diecimila filiali, principalmente nei settori dell’industria mineraria, dei servizi finanziari e commerciali, nonché del commercio all’ingrosso e al dettaglio. Nel 2007 il totale degli investimenti esteri diretti aumentava ancora di 19 miliardi di dollari (con un incremento 8 volte maggiore rispetto al 2002) e il numero di imprese a partecipazione di capitali cinesi saliva a dodicimila.
La differenza tra gli investimenti cinesi e quelli delle multinazionali sono evidenti:
La politica di investimenti esteri della RPC è segnata da una serie di tratti distintivi, che la differenziano da quella delle multinazionali del Paesi sviluppati. In primo luogo, per i grandi investitori provenienti dalla RPC, solitamente rappresentati da aziende statali, non sono importanti soltanto gli indicatori di profitto. Altrettanta importanza ricoprono, infatti, gli interessi sistemici dell’intera economia nazionale, come ad esempio l’obbiettivo di garantire nel lungo periodo l’accesso agli idrocarburi e alle materie prime come i minerali di ferro, il grano e il carbone. In secondo luogo, ad assumere un ruolo determinante sono anche ragioni di politica estera, fra cui possiamo citare la priorità assegnata all’intensificazione dei rapporti di amicizia con i Paesi confinanti, in particolare i membri dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (OCS). In terzo luogo, gli investitori della RPC sono attratti maggiormente dall’economia reale e dalla nuova edilizia (Salickij e Fisjukov 2008).
Intanto i cinesi stanno acquisendo quote azionarie. Nel 2005 ammantano a 5 miliardi di dollari che passano a 68 miliardi nel 2006 che fruttano un saldo netto di 100 miliardi. Le acquisizioni sono continuate negli anni successivi. Una apposita agenzia statale si occupa di questo (Salickij e Fisjukov 2008). Quindi gli investimenti un tempo a senso unico verso la Cina stanno prendendo un flusso inverso. I cinesi hanno comprato la casa automobilistica coreana Ssanyong, la società farmaceutica giapponese Toa Seiyaku e la divisione di produzione PC dell’IBM nel febbraio 2007, la casa automobilistica di proprietà statale SAIC ha acquistato casa automobilistica britannica Rover MG sfruttando la ricerca e il design di questa casa prima del suo collasso (Tucker 2007).

Interessante è il rapporto, sotto questo profilo con la Russia. In tre anni a partire dal 2004 gli investimenti cinesi in Russia sono raddoppiati e continuano a crescere. Nel 2006 sono andati in porto 27 contratti superiori a 3,3 miliardi di dollari. Vladivostok è diventato il centro privilegiato per gli investimenti. Investimenti sono stati fatti in aziende di carta e cellulosa oltreché per lo sfruttamento congiunto di giacimenti di minerali nella trasformazione di prodotti ittici nell'estremo oriente russo. Nel 2007 Rosneft e Sinopec si sono accordate per lo sfruttamento congiunto dei giacimenti del sulla placca delle isole Sakhalin le cui riserve sono stimate stimate nell’ordine di 169,4 milioni di tonnellate di petrolio e 258,1 miliardi di metri cubi quelle di gas naturale.

Durante la visita in Russia del capo del governo Wen Jiabao si è tenuta l’assemblea costituente della camera di commercio russo-cinese per la produzione e le innovazioni tecnologiche, nonché il secondo forum economico ai massimi livelli di Russia e Cina (6 novembre 2007), ai cui lavori hanno partecipato oltre mille fra i maggiori uomini d’affari di entrambe le nazionalità. Durante tale evento sono stati firmati accordi per 1,3 miliardi di dollari. Prima di ciò, esattamente il 20 settembre, a Sochi si è tenuto il quarto forum di investimento russo-cinese, durante cui l’ammontare del valore dei contratti siglati è stato oltre 1,1 miliardi di dollari (Salickij e Fisjukov 2008).

In USA la politica di esternalizzazione ormai diventata indispensabile per la competitività dell'industria americana preoccupa il Pentagono che teme di perdere la supremazia mondiale. Infatti, con la completa deindustrializzazione si teme di perdere la capacità di intraprendere azioni belliche. Funzionari del Pentagono affermano: “Se la tendenza attuale continuerà, presto i cinesi saranno in grado di staccare a volontà la spina della nostra economia, così che noi non saremo più in grado di combattere con la Cina se lo volessimo o se vi fossimo costretti, circostanza questa che, d'altra parte, farebbe della guerra una tentazione sempre più forte per i cinesi, (Arrighi 2008, pp. 234-235)

Parco industriale con capitali 
di Singapore nell'isola di  Changxing
Arrighi cita Doug Henwood, che  che descrive il timore degli anni '80 del “pericolo giallo” in salsa giapponese quando gli americani sentivano minacciata la propria industria dalla “concorrenza sleale” del paese asiatico. Dopo lo scoppio della bolla giapponese il “pericolo giallo” torna d'attualità ma con la “faccia cinese”. L'economista Krugman che aveva visto con indulgenza la minaccia nipponica individua però due aspetti che rendono gli investimenti cinesi in USA diversi da quelli giapponesi:
Uno è che i cinesi non sembrano affatto inclini "a sperperare i loro soldi [investimenti di prestigio] come fecero così disastrosamente i giapponesi". Quindi quelli cinesi saranno probabilmente investimenti da cui gli Stati Uniti trarranno assai meno vantaggi che quelli giapponesi. Ma l'altro e ancor più importante aspetto è che "la Cina, a differenza del Giappone, sembra effettivamente nata a competere strategicamente con gli Stati Uniti per l'accesso alle risorse scarse del pianeta". È questo aspetto che ha fatto dell'offerta cinese per l'acquisto di Unocal, cioè di una compagnia americana con raggio d'azione globale, "qualcosa di più di un semplice affare economico" (Arrighi 2008, 234-235 )

Dunque la Cina è una riproposizione del pericolo giallo che abbiamo visto attivo begli anni 70-80 aggravato dal fatto che si tratta di un avversario strategico a differenza del Giappone.
Il problema del protezionismo americano si è evidenziato con la proposta di acquisto del colosso petrolifero americano Unocal da parte della China National Offshore Oil Company (CNOOC). E' scoppiata una vera “crisi di panico” che portato la Camera ad approvare a larga maggioranza una dichiarazione per cui l'operazione viene definita "una minaccia alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti". Il clima era esagitato, e un ex direttore della Cia dei tempi di Clinton dichiarò che la cnooc non era che lo strumento commerciale "di una dittatura comunista", riecheggiando la retorica della "tempesta rossa" di Dobbs, mentre un ex alto funzionario del dipartimento della difesa dei tempi di Reagan dichiarava di vedere nella mossa della CNOOC il tentativo della Cina di procurarsi le risorse necessarie "per soppiantare gli Stati Uniti come prima potenza economica mondiale e, se necessario, per sconfiggerli militarmente" (Arrighi 2008, 234-235 )
Investimenti esteri all'interno 
e investimenti cinesi all'estero
Questo nonostante che la Cina abbia pagato come biglietto d'ingresso nel WTO un pesante ticket imposto dagli americani. Questi hanno richiesto clausole che non erano state richieste per un altro paese: "Siamo stati noi a dare alla Cina i soldi con cui ora sta cercando di comprare l’Unocal", e ora diciamo ai cinesi, per favore, continuate a investire nei nostri buoni del tesoro, ma che neanche un'oncia del vostro surplus vada nell'acquisto di una compagnia petrolifera. Il nostro è un discorso veramente contraddittorio e ipocrita” ha dichiarato Clyde V. Prestowitz, già tra i responsabili economici dell'amministrazione Reagan. Gli USA sono l’unica potenza che ha potuto intervenire preventivamente in un paese in che ha tra le più importanti riserve petrolifere del mondo negano ad un altro paese la facoltà di spendere i soldi guadagnati regolarmente con le esportazioni per l'acquisto di una multinazionale petrolifera. Anzi se ne sentono minacciati. Questi sono diktat dell'Impero: “Mentre gli asiatici "non dovrebbero sentirsi minimamente minacciati dal fatto che l’Unocal possieda giacimenti di gas nel loro continente", sia i democratici sia i repubblicani rivendicano agli Stati Uniti il presunto diritto, per ragioni di sicurezza nazionale, di impedire ai cinesi di comprare l’Unocal, nonostante gli Stati Uniti siano "l'unica nazione dotata di forza militare sufficiente a mettere in atto o a impedire un blocco su scala planetaria delle esportazioni [di petrolio] come di qualsiasi altra risorsa vitale" (Arrighi 2008, pp. 234-235 )

L’influenza economica si trasforma in influenza politica non solo in Asia ma anche in Africa e nel cortile di casa degli USA ossia l’America Latina:
Ma l'aumento dell'influenza cinese è particolarmente sensibile in campo economico. Nel 2001-2004 la Cina ha contribuito per un terzo all'aumento globale delle importazioni, trasformandosi nella "locomotiva dell'Asia orientale" e contribuendo in modo sostanziale alla ripresa giapponese. In questo aumento dell'influenza economica cinese va cercato "un altro segno del terremoto geopolitico in atto in Asia, Nel giro di pochi anni la Cina è diventata una potenza economica acquistando anche un peso politico crescente in una regione in cui in passato la supremazia degli Stati Uniti era indiscussa [...]. Gran parte di questa nuova importanza della Cina deriva dal suo essere diventata una delle maggiori potenze commerciali del mondo e dalla sua affermazione come importante mercato di sbocco per le nazioni esportatrici vicine. Ma a questa crescita economica si accompagna un aumento di peso politico dato che i dirigenti cinesi attuali si mostrano pronti a mettere da parte antiche controversie e a stringere rapporti reciproci con le nazioni vicine evitando ogni prepotenza" (Arrighi 2008, 234-235 ).
Scrive un marxista americano a proposito del socialismo di mercato come strumento per formare un fronte anti-imperialista:
Capire che i mercati sono un strumento neutro e non-intrinseco al capitalismo, e utilizzabile da capitalisti e socialisti, è fondamentale per analizzare correttamente la posizione internazionale della Cina. A differenza delle caratteristiche dell’imperialismo-colonialismo, del neocolonialismo, del super-sfruttamento e della dipendenza, il socialismo di mercato della Cina promuove la cooperazione, il progresso collettivo, l’indipendenza e lo sviluppo sociale.
Anche se fonti di informazione borghesi denunciano i rapporti economici della Cina con l’Africa come ‘imperialistici’, questo è un riflesso della mentalità commerciale occidentale, che non riesce a capire le eventuali relazioni economiche in termini diversi dallo sfruttamento spietato. Il premier Wen Jiabao ha detto, in un vertice del 2006 al Cairo, che le relazioni commerciali cinesi-africane sono progettate per “aiutare i paesi africani a svilupparsi da soli e a offrire formazione ai professionisti africani”. L’obiettivo del vertice, secondo Wen, è “la riduzione e la liquidazione dei debiti, l’assistenza economica, la formazione del personale e gli investimenti da parte delle imprese“, Wen continua: “Sul fronte politico, la Cina non interferisce negli affari interni dei paesi africani. Noi crediamo che i paesi africani hanno il diritto e la capacità di risolvere i propri problemi.” Questo non è l’atteggiamento dell’imperialismo. La dichiarazione di Wen, qui, nemmeno riflette la retorica dell’imperialismo. Gli Stati Uniti e i loro alleati in Europa, difendono costantemente il loro diritto di perseguire i propri interessi nelle altre nazioni, in particolare quelle nazioni che hanno ricevuto un sostanziale capitale occidentale. L’approccio della Cina è notevolmente diverso, in quanto utilizza il commercio come mezzo di sviluppo delle infrastrutture sociale africane sottosviluppate a causa di secoli di oppressione coloniale occidentale, e funziona soprattutto con una politica di non intervento. Ciò riflette l’impegno del PCC nella comprensione marxista-leninista dell’autodeterminazione nazionale.
I rapporti della Cina con l’Africa riflettono questi principi nella pratica. Nel novembre 2009, la Cina ha promesso 10 miliardi di dollari in “prestiti preferenziali diretti verso programmi infrastrutturali e sociali” in tutto il continente africano. Oltre a fornire le risorse per lo sviluppo infrastrutturale, “il finanziamento sarebbe servito ad eliminare i debiti” e “aiutare gli Stati ad affrontare il cambiamento climatico.” Questi nuovi prestiti rappresentano un aumento del 79% negli investimenti diretti cinesi, che nella maggior parte si presentano sotto forma di “imprese cinesi per la costruzione di strade, porti, ferrovie, abitazioni e oleodotti.” (Vinces 2011)
Per gli investimenti fuori dai propri confini, la Cina ha raggiunto a fine 2011 la somma di 60 miliardi di dollari, che la colloca al quinto posto nella graduatoria internazionale. Gli investimenti cinesi sono sempre maggiormente in Europa, Asia, Africa e America Latina, offrendo condizioni molto più favorevoli rispetto a quelle delle multinazionali Usa. Dunque la Cina ha solidi argomenti  per intervenire in modo positivo sullo scenario internazionale. Continua Vinces:
Geopoliticamente, la Cina offre un campo internazionale completamente separato per le nazioni in conflitto con l’imperialismo degli Stati Uniti. Mentre gli Stati Uniti accrescono le tensioni con il Pakistan e continuano a violare la sua sovranità nazionale, sulla scia dell’assassinio di Osama bin Ladin, la Cina ha annunciato il 19 maggio 2011 che sarebbe rimasta un “partner affidabile” del Pakistan. Il Premier Wen ha aggiunto, “l’indipendenza, la sovranità e l’integrità territoriale del Pakistan devono essere rispettati.”  Assieme ad un editoriale pubblicato lo stesso giorno, sul China Daily, il giornale ufficiale dello stato della Cina, dal titolo “Le azioni degli Stati Uniti violano il diritto internazionale“, su cui si possono facilmente vedere le gigantesche discrepanze tra il campo imperialista e la Cina.  Queste posizioni sono praticamente identiche alla minoranza degli accademici di sinistra negli Stati Uniti, come Noam Chomsky, e in netto contrasto con qualsiasi resoconto dominante sul coinvolgimento militare degli Stati Uniti in Pakistan.
La Cina ha sempre agito come un baluardo contro l’aggressione degli Stati Uniti verso altri paesi socialisti, come la Corea del Nord e Cuba. Nel vicino Nepal ... dopo che i maoisti nepalesi hanno vinto le elezioni parlamentari del Paese con una stragrande maggioranza, il Presidente Prachanda ha visitato la Cina, subito dopo avere prestato giuramento come Primo Ministro.  Anche in America Latina, la Cina ha forgiato profondi legami economici e militari con il presidente venezuelano Hugo Chavez, mentre il paese continua ad andare avanti nella resistenza all’imperialismo USA e ad avanzare verso il socialismo. (Vinces 2011)
La Cina è il principale supporto per i popoli che aspirando all'indipendenza e alla dignità nazionale. I paesi del BRIC con in testa la Cina stanno rubando lo scettro agli USA come maggiore ricettore di investimenti. Ancora nel 2010 un sondaggio, condotto fra 1.408 investitori, analisti e trader piazza gli Stati Uniti al quarto posto alle spalle di Brasile e Cina che conquistano la vetta e l'India terza come posto privilegiato per gli investimenti (Crisi 2010). Infine gli stessi Stati Uniti dovranno sempre più tenere conto della Cina dato che gli investimenti di questa in USA hanno superato quelli americani nel Paese di mezzo. Ovvero è sempre più la Cina che dirige il gioco e diminuiscono le possibilità di ricatto da parte degli USA.

Bibliografia

Arrighi, Giovanni 2008. Adam Smith a Pechino. Genealogie Del Ventunesimo Secolo. Feltrinelli.
Cai Fang 2008. Intervista a. La manodopera cinese non è inesauribile, Polonews, Rif.: 2008052o Traduzione di Anna Zanoli. 
Crisi 2010. Crisi: USA cedono scettro, Cina meta preferita investimenti, Contro la crisi, 21/09/2010.
Deng Xiaoping 1980. Deng Xiaoping: risposte alla giornalista italiana Oriana Fallaci , 21 e 23 agosto 1980. 
Dinucci, Manlio  2014. Allarme Cina negli Usa, il manifesto, 25 novembre 2014. 
Hamlin, Kevin 2008. Chinese Manufacturers Shun Low-Wage Inland for Vietnam, India, Mggio 12, Bloomberg.
Losurdo, Domenico  2013. La lotta di classe. Una storia politica e filosofica. Laterza. 2013.
Marx. Karl 1948. Discorso sulla questione del libero scambio. Pronunciato il 9 gennaio 1848 all'Associazione democratica di Bruxelles. Resistenze. 
Salickij, Aleksandr, and Vladimir Fisjukov 2008. La Cina Nel 2007-2008: Bilanci, problemi, ProspettiveResistenze.
Steinbock, Dan 2008. The next stage in China's growth, China Daily.15 Agosto 2008.
Trocini, Stefano 2011. Cina. l'irresistibile marcia dello sviluppo. Terza Pagina. Numero 17. 20-07-2011
Tucker, Noah 2007. How China rises. 4 Novembre 2007. 
Yechury, Sitaram. 1999. The Road to Socialism in China. The Marxist 15 (04).

Sommario

Nessun commento:

Posta un commento

Chi siamo

Debunkers dei miti sulla Cina. Avversari della teoria del China Collapse e del Social Volcano, nemici dei China Bashers.